UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Accompagnare dentro il mistero

Penso  sia  necessaria una precisazione nell'affrontare il nostro discorso. Che  cosa  intendiamo con  il termine mistero? Lascia­mo  pure da  parte l'accezione più  semplicistica, che  fa  corri­spondere il mistero ad una realtà incomprensibile. A questo propo­sito  rimane valida l'affermazione che il mistero non immerge nelle tenebre, casomai acceca per  troppa luce.  C'è  peraltro da scontare, quando […]
12 Luglio 2018

Penso  sia  necessaria una precisazione nell'affrontare il nostro discorso. Che  cosa  intendiamo con  il termine mistero? Lascia­mo  pure da  parte l'accezione più  semplicistica, che  fa  corri­spondere il mistero ad una realtà incomprensibile. A questo propo­sito  rimane valida l'affermazione che il mistero non immerge nelle tenebre, casomai acceca per  troppa luce.  C'è  peraltro da scontare, quando ci si  confronta con  questa realtà, tutto un mondo di  ri­ferimenti assai  presenti nella mentalità contemporanea. Si  tratta dell'ambito dell'esoterico, intrigante per  certi  aspetti e veicolato da libri  e film,  canzoni e fumetti, videogiochi e ... tatuaggi sul  corpo! Quasi fisiologicamente, l'aura misterica attinge e stravolge conte­nuti, simboli e riti  delle  religioni, in  un sincretismo à la page poco impegnativo e facilmente fruibile. Ciò non significa che, soggettiva­mente, anche questi approcci non possano e debbano essere  suscet­tibili  di un discernimento pastorale, volto  a cogliere ed accogliere una sete  di spiritualità nonostante tutto presente in  questo nostro tempo.

 

  1. Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero

 

Nel vocabolario paolina il riferimento al mistero è ricorrente, sta anzi  al cuore dell'esperienza unica vissuta da Paolo stesso. Non  è tra coloro che  hanno sperimentato la sequela del Gesù  storico, eppure si annovera con  grande consapevolezza tra  gli apostoli. Per  grazia ma  ora  manifestato))  (Col 1,26):  il piano  di salvezza  culminato in  gli è stato  rivelato  ciò che era «nascosto da secoli e da generazioni mistero che si realizza nella  storia,  sia collettiva  che personale, con modalità percepite  dall'occhio interiore, quello  della  fede. È vero, nella  vicenda di Gesù di Nazaret  è avvenuto un  disvelarsi non più riservato agli  eletti,  ma  per  percepirlo è necessaria l'azione  dello Spirito che soffia dove vuole e non è proprietà esclusiva  altrimenti si rimane in  una  dimensione di esteriorità impermeabile al dono.  Non solo quindi  per Paolo, ma per ogni cristiano  il mistero si salda  indissolubilmente con  Gesù  Cristo,  con  le sue  parole  e con i suoi  gesti, con la sua persona  prima ancora  che con il suo  vangelo. Gli amici di Gesù, che pure  erano a conoscenza della sua  provenienza,  della sua  famiglia,  dei suoi  parenti,  vengono provocati ad andare oltre.  «La gente,  chi dice che  io sia?>>  (Mc 8,27),  domanda loro,  dopo che i suoi compaesani ne erano stati scandalizzati: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria,  il fratello  di Giacomo,  di Io­ses, di Giuda e di Simone?  (Mc 6,3).  Non basta  tuttavia l'opinione altrui,  è necessario che si compromettano di fronte  a Lui: «Ma voi, chi dite che io sia?»  (Mc 8,29). Con fatica,  da uomini di poca fede, stanno intravedendo che in quel Maestro  che li affascina  è davvero racchiuso un  mistero,   che li interroga e li spiazza.  Come  per  loro, anche per noi oggi accompagnare dentro il  mistero è anzitutto introdurre alla vicenda di Gesù, affinché  avvenga  quanto provato dai  discepoli  di Emmaus: «Allora  si apri­rono  loro  gli occhi  e lo riconobbero»  (Lc 24,31). Sembra  ovvio,  ma vale  la pena  di ricordarlo: iniziare al mistero della fede cri­stiana  è iniziare a Cristo, non ad esperienze più  o meno capaci  di scuotere emozioni sentimenti (che pure sono  coinvolti nella sequela di Gesù). Si tratta di un cammino mai del tutto  compiuto, dal momento che il mistero di Cristo ha misure  incommensurabili, come viene indicato nell 'au­gurio  paolina: «Che  il Cristo abiti  per mezzo  della  fede nei  vostri cuori  e così, radicati  e fondati  nella  carità,  siate  in  grado  di com­prendere quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza  e la profondità e di conoscere  l'amore di Cristo»  (Ef3,17-19).  Abbracciare il mistero somiglia  al  gesto  del bambino, che  spa­lanca  le braccia  a più non  posso,  quando gli si chiede  quanto ami mamma e papà. Con Salomone dobbiamo riconoscere: «Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non  possono  contenerti» (lRe  8,27);  e tuttavia  il mistero stesso  «Si fece  carne  e pose  la sua  tenda in mezzo  a noi>> (Gv 1,14).

  1. Dal mistero del Cristo al mistero del Regno

Dai Vangeli appare  che,  a far intuire ai discepoli  di trovarsi  di­nanzi  a qualcuno che  era più  del falegname di Nazaret,  sono state appunto le sue  parole e i suoi gesti. È sempre Gesù a renderli attenti a quanto propone loro:  «A voi è stato  dato  il mistero del regno  di Dio>> (Mc 4,11).  Le parabole,  così sconcertanti nella  logica che pro­pongono, scaturiscono dalla capacità  di Cristo di far parlare  le cose al di là della loro immediata e scontata materialità. Leonardo Boff, in un  librettino di qualche anno fa, introduce la sua riflessione  sui sacramenti proprio  in questo modo: «Quando le cose cominciano a parlare...Semi e piante , uccelli del cielo e gigli del campo,  lievito  e farina,  grano e zizzania, lampade e monete, greggi e armenti: tutto,  nella  parola  di Gesù, si fa trasparenza di mistero capace  di indiriz­zare verso la prossimità  di Dio alla vita e alla storia  nel  suo  volto  di Abbà,  Padre suo  e Padre  nostro». Se non fosse  una citazione   più  che  abusata,  si  potrebbe dire  che  attraverso la percezione del  mondo comunicata loro  dal Maestro,  ai discepoli  avviene quanto la volpe  consegna al piccolo Principe  come segreto  dell'esistenza: «Non si vede  bene  che  con il cuore,  l'essenziale è invisibile  agli occhi». È l'itinerario che fa fare soprattutto il Vangelo di Giovanni, nel quale il passaggio dai segni al Segno è scandito dai differenti  modi  di percepire  la realtà: dal guar­dare esteriore al vedere interiore, dagli occhi che credono di vedere e non  scorgono il mistero,  agli occhi della fede aperti  nel  discepolo amato (che siamo ciascuno di noi):  «E vide e credette» (Gv 20,8). Siamo  accompagnati dentro il mistero,  nel  quale  il vino  allude al rischio  dell'amore, l'acqua svela l'autentica sete, il pane  fa emer­gere la fame profonda, la cecità invoca  la luce interiore e nel cuore  della tomba  riempita dalla puzza di morte irrompe il profumo della vita.  Il risultato capovolge  l'espressione proverbiale: non "vedere per credere",  bensì "credere per vedere". Sono sempre rimasto  col­pito dai ritratti  del pittore  Modigliani,  che dipinge  volti nei quali gli occhi sono  senza  pupille: occhi vuoti?  La bellezza  di quelle  tele mi faceva  pensare che non poteva  essere  così, finché  nei  commenti di una  mostra  non  sono stato anch'io accompagnato dentro il mistero: Modigliani dipinge l'occhio interiore dei suoi  personaggi. Occhi che non  si mostrano fuori,  ma si spalancano dentro; l'arte lo sa fare... e le nostre proposte di fede?

  1. L'uomo nascosto del cuore

Una suggestiva indicazione per questo  percorso mistagogico, cioè di progressiva e sempre più incisiva immersione nel mistero (che è Gesù  Cristo),  ci viene  dalla  lettera di Pietro.  L'autore  sta  facendo le raccomandazioni alle donne e, dobbiamo riconoscerlo, lo fa se­condo  stereotipi tipici del paternalismo maschilista di tanti  uomini di chiesa:  «ll vostro  ornamento non  sia quello  esteriore - capelli intrecciati,  collane  d'oro,   sfoggio  di vestiti (lPt  3,3).  Indicazioni datate,  a dire il vero,  visto  che  ai giorni  nostri  i maschi  non sono da meno nella  ricerca  di ornamenti esteriori! Ma ecco che, nel bel mezzo  di esortazioni in certo  senso  moralistiche, viene  proposto - non solo  alle  donne, naturalmente - di  perseguire un  traguardo tanto impegnativo, quanto significativo. In una  traduzione letterale dal  greco,  il testo  dice  di non cercare  "l'esterno", bensì  «l'uomo nascosto del cuore  (1Pt 3,4). Precisiamo  che si tratta  del cuore  in­teso in senso  biblico, non  nella  modalità nostra di farlo coincidere unicamente con la dimensione affettiva  e sentimentale; se per noi, infatti,  cuore  fa rima  con amore, nel  mondo biblico fa rima anche con intelligenza e volontà. Direi cuore significa indicare il nucleo più profondo e  segreto di ogni donna e ogni uomo che solo Dio scruta fino in fondo: " Scrutami o Dio, e  conosci  il mio  cuore,   provami  e conosci  i miei  pensieri»  (Sal 13 9,23). È nel  cuore  che  trova  eco il mistero stesso  di Dio, a immagine del quale  è stato  plasmato il mi- stero  dell'essere umano. Al cuore,  inteso  come interiorità, è rivolto  anche uno  degli ulti­mi appelli di Giuseppe Dossetti. Riflettendo sulla situazione italiana, paragonata alla notte in cui la sentinella veglia chiedendosi quanto resta ancora, così invitava: «La partenza assolutamente indispensa­bile oggi mi sembra  quella  di dichiarare e perseguire lealmente- in tanto baccanale dell'esteriore -l'assoluto primato della interiorità, dell'uomo interiore». Un altro modo  per ribadire la ricerca dell'uomo nascosto del cuore,  addirittura come scelta  politica da confermare, quando la situazione si fa più cupa e la tentazione è di mancare di speranza. Far venire alla  luce  l'uomo nascosto del  cuore,  in  Cri­sto nuovo Adamo,  è pertanto la sfida grande  e bella dell'esperienza cristiana; Gesù  lo  dice  a Nicodemo,  che  nella  notte sta  cercando di vederci  chiaro:  «in verità,  in verità  io ti dico, se uno  non  nasce  dall'alto, non può  vedere  il regno  di Dio (Gv 3,3 ). È un  alto  che  corrisponde al profondo, infatti  Nicodemo  vedrà  il mistero sprofondandosi  nell'abisso dell'amore, quando accoglierà  tra le braccia  il Crocifisso deposto  dalla croce.                                            L'impresa  mistagogica, nella  quale  è ingaggiata  l'intera comunità cristiana,  coincide  di fatto  con l'accompagnamento vocazionale. Che significa,  infatti,  camminare con un  ragazzo  o un giovane  interrogandosi e interrogandolo sulla  chiamata, che può  fare venire  alla luce  in  pienezza  (dentro e non  oltre i propri  limiti?  Significa permettere all'uomo nascosto,  quello  del cuore,  di emergere e dare forma  all'esistenza in tutte le sue dimensioni. Il percorso mistagogico si innesta nell'antropologia vocazionale biblicamente intesa: di­venta ciò che sei! Il dono si trasforma in compito,  nell'orizzonte del mistero nascosto,  che si fa manifesto mediante scelte di vita pensate e attuate, pregate  e agite,  decise  e verificate. E se la crisi vocazio­nale,  in cui ci si dibatte,  fosse mancanza di cammini di mistagogia attivati dalle  e nelle  comunità  cristiane? Spero  che  più  nessuno, parlando di pastorale vocazionale, abbia in mente strategie di reclu­tamento; quanto piuttosto un'arte maieutica, che mette a contatto con le provocazioni della vita  e della storia  al fine di far venire  alla luce il mistero di ciascuno  divenuto dono  per tutti.

  1. La densità dell'umano

In questa  prospettiva antropologica, che evidenzia la corrispon­denza  tra  mistero di Dio e mistero dell'essere umano, l'accompa­gnamento mistagogico richiede  una  sapienza capace  di valorizzare lo spessore  di umanità di cui è intessuta l'esistenza, là dove non sia appiattita sulla  superficie. Alcuni  versi  del poeta  Kavafis mettono in  guardia da quanto può  stravolgere la vita:  «Non  sciuparla con troppe parole  e in  un  viavai  frenetico l  Non sciuparla portandola in  giri in balìa  del quotidiano gioco balordo degli incontri   e degli inviti fino  a farne  una  stucchevole estranea. Il rischio  più grande è quello di venire  espropriati dell'umanità, rassegnandoci ad essere  donne e uomini ad  un'unica dimensione. Prima  di arrivare troppo velocemente a discorsi spirituali, troppe volte spiritualistici, dovremmo probabilmente interrogarci sulla  capacità  di custodire e incrementare la stoffa umana a partire  dalla quale è possibile confezionare un'esistenza significativa  (agli occhi nostri  come a quelli di Dio). C'è troppa  povertà  di orizzonti,  di proposte,  di esperienze vol­te e far fiorire l'umano al di là delle sfere più concrete,  pur necessa­rie per vivere.  Come  diventare e rimanere sensibili al mistero, che è anzitutto mistero dell'esistenza resa bella e buona, oltre  ciò che è strettamente necessario secondo un  mero  criterio  di utilità  imme­diata? Usando uno slogan del sessantotto, che non  per niente teoriz­zava l'immaginazione al potere,  si potrebbe dire che accompagnare dentro il mistero è garantire sì che ci sia pane  per tutti,  ma insieme al pane  che non  manchino le rose.  Il pane  e le rose: accostamento non frivolo,  bensì  vitale  per un  umano che non  voglia  diventare, inevitabilmente e un  po' alla volta, sub-umano mentre è chiamato ad essere  sovra-umano (siamo  o non  siamo  capax Dei, come  dice­vano  gli antichi?). Può aprirsi al mistero chi non ha animo di poeta e  di artista,  chi  non sa stupirsi  e  contemplare, chi  ritiene tempo sprecato guardare un  tramonto, ascoltare una  musica, intenerirsi per una  parola  o un  gesto?  E può  condurre dentro il mistero una comunità insensibile al bello e al gratuito, attenta solo alle formali­tà, resa sportello  per servizi  religiosi anonimi? Un piccolo esempio: che mistagogia  si può  vivere  in certi ambienti parrocchiali sciatti e inospitali,  riempiti di brutture, dove manca ogni  colore  e ogni sa­ pore?  Ciò non  significa che al mistero della fede si arrivi  curando... l'estetica, quasi a confondere la percezione della trascendenza con il gusto estetizzante, che solletica  epidermicamente i sensi.  E tuttavia la via pulchritudinis passa anche -perché no? -attraverso le stanze della parrocchia. In  questa   impresa  di  ridare   spessore   significativo all'umano, va riconsiderata l'esperienza della  domenica e l'impoverimento al quale  siamo  soggetti  quando non  siamo  più  capaci  di viverla.  C'è un aspetto familiare,  sociale,  politico ed economico della questione, che non mi dilungo a ricordare: il lavoro  obbligato,  i turni che im­pediscono  le relazioni  familiari,  il primato dei soldi e del consumo. Alcune  realtà simbolicamente dense non ci sono più: il vestito  della festa, il rito che fa un giorno  diverso dagli altri giorni,  un'ora dalle altre ore}} (ancora  la volpe al piccolo Principe), il pranzo con il cibo tipico della domenica... Non ci si può tuttavia rassegnare allo svuotamento del giorno  del Signore,  come  lo chiamano i cristiani;  ad indicare  non un giorno  che noi dedichiamo a Lui, ma un giorno  che egli ci regala ogni settimana, nel ritmo del tempo affinchè ritroviamo al densità di ciò che ci fa donne e uomini in relazione, Un cammino mistagogico che si fa carico di ridare fiato all'umano, può  e deve giocare la carta della domenica come esperienza setti­manale di apertura al mistero: di noi stessi, degli altri,  della natura, di Dio. Alcune  par­rocchie  tentano di far vivere  alle  persone  e alle famiglie, in modo intergenerazionale,  le  domeniche esemplari; per  reimparare a  guardarsi negli  occhi,  a  dialogare,   a  con­templare la  natura, a  nutrire  l'interiorità  con una buona lettura, l'ascolto di una  musica, l'esperienza del silenzio,  lo spazio  alla preghiera. Non solo quindi  l'andare a messa, per chi ancora ci va, riducendo tutta  la pastorale  della domenica a garantire messe  celebrate  in ogni luogo  e ad ogni ora.

  1. Il mistero della Parola

Nel cammino dei  catecumeni la celebrazione dei sacramenti è preceduta da un  tempo significativo di ascolto  della Parola  di Dio. Come  dice il nome (dal verbo  greco  katèco) è necessario che la Pa­rola  faccia  eco  profonda nella  loro  vita,  per  aprirli  all'accoglienza del mistero della Pasqua di Cristo impresso  nei corpi battezzati, cresimati,  invitati  alla mensa eucaristica. Anche  se,  in senso  preciso, la mistagogia segue  la celebrazione sacramentale, l'iniziazione alla Parola di Dio è già accompagnamento dentro il mistero: «Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture (Lc  24,45).

Dal punto di vista  umano siamo  introdotti, fin dal grembo ma­terno, al mistero della parola  che fa di noi degli esseri in relazione. Se non  avessimo le parole   per  dirla,  la  vita  rimarrebbe muta  di senso;  ed è proprio nel  dare  parole  ai vissuti,  che  essi divengono esperienze significative per l'esistenza. L'impoverimento del vo­cabolario, che vede  troppi usare  poche  parole,  incapaci  quindi di esprimere la ricchezza  della vita, non è solo questione che riguar­da l'acculturazione. Mancando di parole,  non  elaboriamo ciò che ci avviene; il mistero dell'esistenza si riduce  a poco a poco,  perde la sua  densità, diventa realtà che ci scivola  addosso senza  lasciare traccia.  Se a  questo si aggiunge che  lo scambio di parola  è assai spesso  banale, ripetitivo, superficiale, allora  davvero c'è  l'urgen­za di accompagnare in un cammino mistagogico che ridoni  spes­sore  alle  parole. Lo si coglie soprattutto a livello  giovanile, dove da  tempo si è segnalata da  parte  di molti  una  sorta  di afasia,  in particolare in  riferimento ai vissuti  emotivi; non  detti,  finiscono per  esplodere o implodere, con  conseguenze talvolta addirittura drammatiche. Ma, appunto, chi fornisce  ad esempio ad un  adole­scente dei giorni  nostri  un vocabolario del cuore,  che gli permetta di districarsi nel  guazzabuglio che  sente dentro (così dice il Man­zoni  del cuore  umano)? Talvolta  gli adulti,   che  dovrebbero farlo, sono  essi stessi  disorientati, dal momento che  le parole  consuete con le quali  si era soliti  dire le cose della vita sono state  messe  in crisi e si rivelano inadeguate. Ci è stato  fatto il dono  della Parola di Dio, a partire  dalle Scrittu­re, proprio  per poter  dire la nostra esistenza.  Infatti come osserva l'ebreo Heschel, la Bibbia non  è la teolo­gia dell'uomo, ma l'antropologia di Dio; non  siamo  noi  infatti  a  dire chi sia Dio (con  il rischio  continuo di  proiezione ma è Dio a dirci chi siamo  e quindi  a  donarci il mistero della sua Parola per vivere,  esprimere e condividere la nostra   umanità. Basta  aprire  le Scritture,   per  accorgersi  che  là dentro c'è tutto e niente viene  censurato; quindi  davvero ci sono date  parole  per  ogni  esperienza, non ultime  le  esperienze dram­matiche, negative, fallimentari. Come  mai,  se attingo la preghiera ai salmi biblici, trovo  espressi  non solo sentimenti nobili,  positivi, edificanti,  ma  m'imbatto in  espressioni che  una  certa  educazione religiosa mi imporrebbe di censurare, quando sono  di fronte a Dio? Perché nella relazione con Lui è importante dire anche il sentimento negativo, elaborarlo nella  preghiera e quindi  gestirlo diversamente. Accompagnare dentro il mistero significa pertanto, tra le altre  cose, iniziare ad una  preghiera maggiormente biblica. Non mi sembra sia sempre  così nelle  parrocchie, nei gruppi  di catechesi,  nelle  proposte di spiritualità, ma  credo invece  che ci siano  ancora  modalità di pre­ghiera  devozionali, anacronistiche, sentimentali, a rischio quindi  di inconsistenza. Come è possibile un serio discernimento vocazionale se non si viene  introdotti alla  densità  misterica della  Parola,  che permette da una  parte di sentirsi  interpellati e dall'altra di rispondere in autenticità e verità?

  1. Celebrare il mistero

L'espressione più piena  del celebrare cristiano avviene nei sa­cramenti. Il termine è latino  e traduce (a dire il vero  problemati­camente, per  il rimando al sacro  che  la parola  comporta) il greco mistero; i sacramenti infatti  vengono chiamati dai  Padri  "misteri", rinviando chiaramente al mistero paolina, cioè al disegno di salvez­za che - come detto- ha il suo culmine nella  Pasqua di Gesù Cristo.   Vivere la  dimensione sacramentale non  significa  pertanto entrare   nella sfera del sacro, separata dal profano, ma essere immersi in una  storia  di salvezza. L'accompagnamento mistagogico  non  può non  avere  il suo  banco di prova  nella  sfida odierna di una  realtà  sacramentale, da una parte  ancora  richiesta per tradizione o peggio convenzione, dall'al­tra non più sentita come importante e progressivamente abbando­nata. C'è  quindi  un  interrogativo da  porre,  sia che  si parta  dalla richiesta sacramentale, sia che si ci confronti con l'abbandono della pratica  dei sacramenti; interrogativo, sia ben  chiaro,  che riguarda la comunità cristiana  ,non solamente le persone  che ad essa appro­dano.  L'esperienza del celebrare dice che ci si immerge nel mistero della  fede  attraverso il "bagno  liturgico"  (secondo  un'espressione usata  in ambito  francese) a conferma del fatto che si accede al mi­stero  non primariamente per via intellettuale, bensì  corporea. «La carne  è il cardine  della salvezza. Infatti  se l'anima diventa tutta  di Dio  è la carne che glielo rende possibile! La carne viene battezzata perchè l'anima sia mondata.    La bellezza della dimensione sacramentale dell'esistenza cristiana sta  nel suo  inscriversi nei corpi  dei singoli, fino  a trasformarli insieme nell'unico Corpo di  Cristo. Ciò che è più  spirituale si comunica a noi  in quanto è più  corporeo, in sintonia con la ri­velazione massima del mistero di Dio al mondo e alla storia:  «E il Verbo di fece carne>> (Gv l,14). In questa  chiave comprendiamo che accompagnare dentro il mistero liturgico  non significa acconsentire alla deriva sacralizzante, che fa coincidere il misterico con il miste­rioso e la trascendenza con la separatezza, per cui abbiamo bisogno di lingue antiche, paramenti preziosi, cerimonie ieratiche. Certo, ri­mane valido  quanto viene  detto  a Mosè nella visione  del roveto  ar­dente:  «Togliti i sandali dai piedi, perché  il luogo  sul quale  tu stai è santo!»  (Es 3,5); ma si tratta appunto di togliere,  non  di aggiungere.

Oggi più  che  mai  ci si apre  al mistero là dove si sperimentano sobrietà e spoliazione, essenzialità e condivisione, semplicità  e tra­sparenza nei  segni,  nelle  parole,  nei  gesti.  Caricare  l'esperienza li­ turgica in modo indebito fa inoltre  dimenticare la tensione escatolo­gica, che anima l'esperienza del mistero dentro la storia: introdotti e accompagnati in esso, ma non immersi in totalità e pienezza. Siamo tra  il già  e il non ancora,  va  pertanto custodita quella  ulteriorità verso la quale siamo  protesi, in attesa  della sua venuta. «Soltanto la sobrietà di un  po' di pane  e di vino,  e non  la realtà  di un sontuoso banchetto, è adeguata a simboleggiare l'intervallo, gioioso  e dolo­roso  a un tempo, in cui si trova  il mondo» (L.-M. Chauvet). Forse anche in  questo  senso  va colto il richiamo di Papa  Francesco  alla chiesa  povera,  cioè più libera  di accogliere,  condividere e condurre dentro il mistero dell'Amore.

 

  1. Mistagogia e carità

Quest'ultima sottolineatura ci permette di evidenziare una  pro­ spettiva che rischia  di rimanere in ombra.  Quando infatti  parliamo di accoglienza, di solidarietà, di condivisione, pensiamo a qualcosa che  è conseguente l'esperienza cristiana. Incontriamo Cristo  nella sua  Chiesa,  ascoltiamo il suo  Vangelo e celebriamo la sua  Pasqua, poi per  essere coerenti ci impegniamo nella  carità.  Entrare  sempre più nel mistero non  significa forse incontrarlo nel  povero,  come  ci ha  detto  Gesù stesso?  «<n verità  io vi dico: tutto quello  che avete fatto a uno  solo di questi miei fratelli  più piccoli, l'avete  fatto a me» (Mt 25,40). Potremmo in certo senso  dire che ci sono  una mistago­gia liturgica  e una  esistenziale e sono  due  facce di un'unica meda­glia. Ciò comporta una  più precisa  lettura di fede  delle prassi caritative fa dono  del mistero di Cristo e la prassi solidale ci introduce sempre più a gustarne «l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza  e la profondità. Accanto  alla carità politica c'è infatti una  carità  dossologica da vive­re. La carità politica è quella che si fa carico di analizzare le situazio­ni
fatto  ogni volta  che condividiamo con il povero;  il povero  stesso  ci   di individuare le cause,  di programmare gli interventi. Ci vuole,   va condotta con intelligenza, permette di responsabilizzare i singoli  e le strutture e di non perpetuare realtà  di dipendenza. Tuttavia  rimane aperta, in particolare per i credenti, ma non  solo,  la strada. Rimane aperta, in particolare per  i credenti, ma non solo,  la strada della carità dossologica: che dà lode  al mistero dell'amore, in libertà e gratuità, senza calcoli  da fare o fini da raggiungere. Credo che la mistagogia abbia qui  un campo  vasto  e significativo, nella misura in cui facciamo e facciamo fare esperienza di incontri con volti  e storie di persone non  trattate come casi da risolvere.    della  carità  dossologica:  che  dà lode  al mi­stero  dell'amore, in libertà e gratuità, senza calcoli da fare o fini da raggiungere. Credo che la mistagogia abbia qui un campo vasto e significativo,  nella misura in cui facciamo e facciamo  fare  esperienza di incontri con volti  e storie  di persone non trattate come casi da risolvere;  alla ricerca  quindi  non di soluzioni, bensì  di condivisioni di  concre­ ta  umanità nella  sua  fragilità  e nudità. Là dove  ci scopriamo fragili  e  nudi,  insieme ai poveri  di ogni tipo, avviene per grazia un'intuizione unica  e singolare del  miste­ro stesso  dell'amore di Dio: una  mistagogia esigente  e liberante.

 

2017

3

di Dario Vivian