UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Chiesa madre: se il tempo è superiore allo spazio

Riferirsi alla Chiesa come a madre è un dato tradizionale, con una  lunga  storia  alle  spalle,  ma  come  molti  dei  concetti  e delle immagini che utilizziamo da così tanto tempo,  è anche,in certo senso e a dispetto  del suo  ricorrere apparentemente profondamente migrante. Lo è per i diversi contesti in cui è sorto  e nel […]
23 Maggio 2018

Riferirsi alla Chiesa come a madre è un dato tradizionale, con una  lunga  storia  alle  spalle,  ma  come  molti  dei  concetti  e delle immagini che utilizziamo da così tanto tempo,  è anche,in certo senso e a dispetto  del suo  ricorrere apparentemente profondamente migrante. Lo è per i diversi contesti in cui è sorto  e nel  quale  viene  utilizzato,  come si può  vedere  nella  voce  sintetica riportata. Lo è anche perché  incrocia  un immaginario potente, quel­lo materno appunto, nel  quale  sono  implicati  desideri  profondi,  a tratti  contraddittori, sempre comunque complessi,  che non si pos­sono  dare  per scontati. Lo è infine  perché  oggi non  possiamo  non metterlo in  relazione con le traiettorie che  delineano un  orizzon­te importante per la Chiesa  cattolica,  quali  in particolare il ricorso all'idea  che il tempo sia superiore allo spazio,  cioè che  si privilegi l'attivazione di processi  rispetto  alla  ricerca  di risultati  immediati (EG 222-225).

l. "Ricorderai d'avermi atteso tanto"

Pur avendo a disposizione  così tanti  testi della tradizione e anche del Magistero  più recente, non  rinuncio all'approccio letterario già. In questa  prospettiva si può leggere anche  come figura della ma­ternità della  Chiesa, sottolineando qui  in maniera particolare pro­prio  l'attesa, come  desiderio  rivolto  a chi deve  arrivare e insieme capacità  di proiettarsi con benevolenza oltre il presente. Per questo motivo si può  collegare al principio  del «tempo superiore allo spa­zio}, certo  urgente quando si parla  dei giovani  e della  cura  delle loro vocazioni, anche  se valido più ampiamente. Da parte dei giovani essere  desiderati vuol  dire arrivare in un  ambiente caldo, significa essere previsti e stimati,  e non piuttosto tollerati  o sospettati, magari come disturbatori di un sistema quieto e rassicurante. Da parte degli adulti  - qui intesi  tutti  come madri, pensiamo non se ne offendano segnalato in  esergo,  cioè alla poesia  scritta  da Giuseppe  Ungaretti in occasione  della morte della madre  (1930)

Legata all'esperienza della vita  e della  conversione del poeta,  riesce a mantenere nelle poche  parole  la pluralità  dei piani: come statua davanti all'eterno e con le braccia aperte in un "eccomi",  è tanto figura  profana,  quanto specchio  di immagini mariane, tra annunciazione, croce  e dormi­zione/assunzione. Per questo l'avere atteso tanto tiene  tutto con sé: è in ultima istanza l'attesa della conversione di Ungaretti, attesa  che tuttavia non  dimentica i giorni  passati a scrutare la vita e le scelte di quel figlio con i dolori e le gioie che accompagnano un'esistenza. Ed è l'attesa propria  della gravidanza, che dà un senso  anche a quelle successive,  prolungandosi in certo modo  nella vita e oltre:  così reale da poter  prestare la sua  forza alle immagini dell'avvento e del tra­vaglio di parto  di tutta  la creazione (Rm 8,18-27).

In questa  prospettiva si può leggere anche  come figura della ma­ ternità della  Chiesa, sottolineando qui  in maniera particolare pro­ prio  l'attesa, come  desiderio  rivolto  a chi deve  arrivare e insieme capacità  di proiettarsi con benevolenza oltre il presente. Per questo motivo si può  collegare al principio  del «tempo superiore allo spa­ zio}), certo  urgente quando si parla  dei giovani  e della  cura  delle loro vocazioni, anche  se valido più ampiamente. Da parte dei giovani essere  desiderati vuol  dire arrivare in un  ambiente caldo, significa essere previsti e stimati,  e non piuttosto tollerati  o sospettati, magari come disturbatori di un sistema quieto e rassicurante. Da parte degli adulti  - qui intesi  tutti  come madri, pensiamo non se ne offendano

- desiderare i giovani  è segno  che credono in quello  che loro stessi adesso  stanno facendo, che hanno fiducia  che quanto propongono può attraversare i tempi e mantenere la forza suadente che li ha at­ tratti  un giorno  e che continua a indicare  a loro stessi un senso  per cui valga la pena vivere  e morire.

Siamo tuttavia consapevoli che, come accade  nella genitorialità reale, tra la nobiltà di questo desiderio, nel  duplice  versante attivo e passivo,  e le sue  realizzazioni concrete ci sono sempre molteplici varchi, dei gap significativi.

Al di là  della  retorica di rito,  infrequente che questo meccanismo si inceppi e, fuor  di metafora, certi  modi  di "procacciare vocazioni" non  possono non suscitare  dubbi: non tanto sulla buona fede  di chi vi  si spende, quanto sull'onestà storica dei  progetti,  che   rischiano di  aver   bi­sogno di adepti per  mantenersi in vita, più  che  adoperarsi per  offrire loro  una vita  desiderabile. Non ha senso ovvia­mente cercare una purezza astratta, né al  contrario coinvolgere tutti nella cri­tica:  è invece necessario trovare criteri di verifica che  possano diventare anche strategie di  programmazione. Per  que­sto   è  preziosa l'indicazione  di  tenere sotto controllo l'ansia che  fa cercare ri­sposte immediate perché non si riesce a vivere di  progetti a  tempi lunghi. Fare degli  esempi rischia sempre di banaliz­zare  il discorso, ma  si  dovrebbe discer­nere la differenza fra  accogliere l'istan­za  di modalità coinvolgenti e affettivamente cariche,  di  comunicazioni veloci e connessioni agili  e l'uso strumentale di entusiasmi collettivi e di slogan abbreviati.

  1. L'ordine simbolico della madre: risorse e aporie

Prima  di proseguire il discorso  sui  modelli  ecclesiali si impone una  breve  sosta sull'immaginario materno che stiamo utilizzando, il cui uso è tutt'altro che scontato.

Come  si è detto  sopra,  la metafora è intrigante e migrante: in primo  luogo perché la stessa immagine di madre si rende  disponibile per diverse funzioni ecclesiali, che vanno dal generare nell' evange­lizzazione  e nel  battesimo, al nutrire nell'Eucaristia, al perdonare nell'accoglienza dei figli che vanno cercati, accolti, rimessi in piedi, al vigilare  contro  gli abusi, ancor  di più se perpetrati da padri nella   stessa  famiglia.  Questa  duttilità dipende tuttavia non  solo  dal  di­ scorso  ecclesiale e dalle sue molteplici esigenze,  ma anche dall'im­magine utilizzata  e dalla prospettiva con cui viene  guardata: infatti di mamma ce n'è più d'una  - come  Loredana Lipperini  intitola  uno studio  sui molteplici modi  di vivere  la maternità nel mondo  occi­dentale - e ci sono  anche modalità diverse  di presentarne il signi­ficato. Possiamo  infatti  osservare che nell'uso ecclesiale contempo­raneo  prevalgono gli atteggiamenti benevoli e teneri,  spesso intesi anche  come correttivo delle forme rigide.

Nelle difficili situazioni che vivono  le persone  più bisognose,  la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fos­ sero delle pietre, ottenendo con ciò l'effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio  da quella  Madre  che  è chiamata a portare loro  la misericordia di Dio. In tal modo,  invece  di offrire  la forza risanatrice della  grazia  e la luce  del Vangelo,  alcuni  vogliono "in­ dottrinare" il Vangelo,  trasformarlo in  «pietre  morte da scagliare contro gli altri.

Certamente questo  corrisponde a una  visione di Chiesa e ad una interpretazione del Vangelo di grande  respiro,  che in questo  caso si lega al materno. Per il bene  di entrambi questi  versanti si dovrebbe però porre  un'attenzione tutta  particolare  a non rinchiuderli in un orizzonte  sentimentale, quasi che qui stia ogni dolce bontà,  mentre per trattare di fondamenti e ragionamenti se ne  debbano  abbando­nare  le sponde per navigare  altrove,  in metafore più virili. Ebbene, questa  appare  più come  una  deriva che come un  principio  materno: nel  suo  studio  ormai  classico Luisa Muraro mostra  come  si debba rintracciare un ordine simbolico della madre , constatando che solo un sistema  di pensiero  e di pratiche che releghi le donne in un femminile  sottomesso, romantico e funzionale, può  ignorare  il fatto  che le madri  offrono  parole,  pensiero e significati.  Se si tratta  di partire dall'esperienza di "più  donne che uomini" per assumere maggiore consapevolezza della dimensione emotiva  in cui si radicano anche  i procedimenti logici, le competenze pratiche e le attitudini argomen­tative,  ben venga. Evidentemente non  andrebbe invece altrettanto bene viverla secondo una certa mistica della femminilità, anche  questa ormai ampiamente denunciata nelle sue derive, ma che si ripresenta di frequente, perché  è in fondo  la proiezione  di un desiderio.

Da questa breve  ricognizione nascono dunque due osservazioni. In primo luogo si dovrebbe star bene attenti a non tradurre un prin­cipio materno, anche e forse  specialmente in  contesto formativo, come  accomodante, rassicurante e "senza  principi": le madri  - in termini generali -non danno solo affetto,  ma anche  direzione, sono accoglienti ma  anche  autorevoli. Nuovamente, fuor  di metafora, la Chiesa è materna quando accoglie e anche quando chiede  di ac­cogliere  gli immigrati e di rovesciare le piramidi ecclesiali; quando comprende in forma  empatica e anche  quando presenta le esigenze del Vangelo, nella cura della casa comune, nell'ascolto del grido del­la terra  e del grido dei poveri  (LS 49). È materna quando non vuole lasciar fuori nessuno dalla casa, e lo è altrettanto quando vigila sen­za compromessi sugli abusi: non a caso, proprio  l'intervento fatto a questo  proposito da Papa Francesco  trova inizio e titolo nell'espres­sione  "come  una  madre  amorevole"

La seconda osservazione è che  risulterebbe strano utilizzare  in maniera massiccia metafore materne/paterne, e dunque femminili/ maschili,  senza  almeno iniziare  a riflettere pacatamente, ma senza ulteriori ritardi,  su come  tutto  questo  si riferisca non a dimensio­ni  fantastiche, ma a soggetti  storici e agli immaginari secondo cui vengono rappresentati. Il che vale per le donne -perché certo non stiamo parlando solo  di vocazioni maschili - ma vale anche per gli uomini, che possono essere molto migliori  delle caricature di virilità  che spesso vengono loro gettate  addosso  come un'armatura pesante e invalidante    Non è questo  il luogo  per sviluppare queste consi­ derazioni, ma  certo  è uno  dei luoghi in cui l'urgenza di percorrerle non può essere  taciuta.

 

  1. Vocazioni: per quale Chiesa?

Interrotto solo apparentemente il discorso su maternità/ genera­ tività/vocazioni/cura per utilizzarne senza  troppa  ingenuità le me­ tafore  ricorrenti, torniamo a considerare l'orizzonte entro  cui atti­ vare  processi che possono  far  parte  integrante della vita  ecclesiale, della sua cura  pastorale.

«Ci vuole vita per amare la Vita>>, recita un celebre verso dell'An­tologia di Spoon River in cui è proprio una madre, Lucinda Matlock,  a lasciare a figli e figlie la consegna di una vita che non  si è sottratta a difficoltà e gioie, con prorompente energia.  Si può infatti  certo con­venire che non  siano  le piccole realizzazioni ad attrarre i giovani, ma  quella  "misura alta"  sulle  note  della  quale  abbiamo iniziato  il millennio con Giovanni Paolo II.

In realtà,  porre la programmazione pastorale nel segno della san­tità è una scelta gravida  di conseguenze. Significa esprimere la con­vinzione che, se il Battesimo è un vero  ingresso  nella santità di Dio attraverso l'inserimento in  Cristo  e l'inabitazione del suo  Spirito, sarebbe  un controsenso accontentarsi di una  vita mediocre, vissuta all'insegna di un'etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: «Vuoi ricevere  il Battesimo?» significa al tempo stesso chiedergli: «Vuoi diventare santo?>>. Significa porre sulla sua  strada  il radicalismo del discorso  della Montagna: «Siate perfetti  come è perfetto  il Padre vostro  celeste»  (Mt 5,48).

Come  il Concilio  stesso ha  spiegato,  questo  ideale  di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni "geni" della santità. Le vie della santità sono molteplici  e adatte  alla vocazione  di ciascuno.  Ringrazio  il Signore che mi ha concesso di beatificare  e canonizzare,  in questi anni,  tanti cristiani,  e tra loro molti laici che si sono  santificati  nelle  condizioni più  ordinarie  della vita.  È ora  di riproporre a tutti  con  convinzio­ne  questa  "misura alta" della vita cristiana ordinaria: tutta  la vita della  comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane  deve portare  in questa direzione.  È però  anche  evidente  che  i percorsi  della santità  sono personali  ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta  rivolta a tutti  con le forme  tradizionali  di aiuto  personale e di gruppo  e con forme più recenti  offerte nelle asso­ ciazioni e nei movimenti riconosciuti  dalla Chiesa (NMJ 31).

Simile misura non può  essere  perciò solo nella parola  calda che si rivolge ai giovani in alcune occasioni speciali o nella impostazione di vita  degli anni  della  formazione, nel  caso  dei  percorsi  specifici per la vita consacrata e per i ministeri ordinati. Esige la conversione pastorale di tutta  la comunità ecclesiale,  non solo  perché  questa  è la logica che sorregge  la sua stessa  esistenza,  ma anche, più banal­mente, perché  l'uscita da luoghi  caldi verso ambienti freddi dà luogo evidentemente a reazioni  depressive.

Anche  questo   tuttavia   chiede  alcune   precisazioni: sia  l'idea  di "alto" che di "caldo" indicano un'eccellenza che potrebbe essere in­ tesa come  elitaria,  perfezionistica e infine  irrealistica,  dal momento che non  si può comandare la santità, né  dirigere  dall'alto la conver­ sione  dei singoli.  Per questo  è qui  importante recuperare l'idea  di processo:  la Chiesa  per la quale  è almeno onesto  proporre progetti che  coinvolgono l'intera vita non è  "perfetta", ma  è quella  che  si pone  in  cammino "verso".  Questo  "verso"  ha  molteplici  direzioni, oggi espresse  anche  con altre  parole  e pratiche,  ma  coerenti  con la struttura concettuale del Vaticano  II: verso  Cristo e il suo  Vangelo (DV), verso il mondo (GS), verso una sua vita interna evangelicamen­ te compatibile (LG), con competenza simbolica e celebrativa (SC).

La forma  materna che si è messa  sopra  in evidenza  si può  espri­mere  in questo  orizzonte sottolineandone il tratto compassionevo­ le e forte:  una sua  cifra è la lezione ecumenica e magisteriale rappre­sentata dall'inclusione fra Lampedusa e Lesbo : prendere il largo (NMI) in questa direzione non è perdersi,  ma ritrovarsi  in un oltre promettente. Così come  dal  punto di vista  della  vita  comunitaria  una forma  materna è chiamata a curare  le differenze in un orizzonte di comunione: come si è detto,  perché  le forme  specifiche  interagi­scano  nella comunità di tutti,  perché  la sinodalità nasca  nella stima della  franchezza e del  rispetto  delle  diverse  opinioni, perché  nelle differenze  (cf Gal  3,28) fra i popoli cosi come fra donne e uomini si accolga la ricchezza  operando verso  il superamento delle  disegua­glianze  e della inequità. Non si può  toccare solo un  punto, ignoran­do che questo impone di rifare in certo senso l'intera mappa.

Ancora  una precisazione è necessaria, mi sembra, rispetto  a tutto questo e all'uso  di "caldo"  che ho appena sopra  declinato come alto e forte.  Detto solo così rischierebbe di dipingere una  cura pastorale (e in essa, i percorsi formativi specifici) a costante rischio di volon­tarismo,  non meno inadatto e triste  dell'assenza di respiro  evange­lico. In simile  ottica sarebbe  difficile accogliere  le fragilità  di tutti  i tipi,  comprese quelle  di chi inconsapevolmente intende la "voca­zione" come bene rifugio residuale  per proteggersi  da altri problemi. Evidentemente non  può  essere  così, né lo è stato  necessariamente nella grande tradizione della direzione spirituale.

A questo  proposito  possono venire  in aiuto  almeno due attenzio­ ni contemporanee, che oggi suggeriscono di ri/tradurre anche  i be­ nemeriti lemmi  di cinquanta anni  fa: l'espressione Chiesa/mondo, in­ tanto,  rischia di far pensare a due realtà che si fronteggiano soltanto, lasciando  in ombra  il fatto che siamo  parte  degli stessi processi che osserviamo. Inoltre,  abbiamo  maggiore  consapevolezza di un tempo del fatto  che le funzioni  logiche  e cognitive  sono  radicate  nella  di­mensione emotiva:  la separazione fra i due versanti, così da oscillare fra iper/emozionalità e rigidità, si collocherebbe in una  sorta di ales­sitimian, particolarmente problematica  se di adulti formatori. Diver­samente, invece, quell'empatia che si associa in questo  caso ( = per la Chiesa)  al principio  materno (dunque intesa  come orientata verso la promozione e la cura e utilizzata  in forma  inclusiva, non  escludente cioè gli uomini) potrebbe essere al cuore  del sistema formativo, pro­prio accogliendo ognuno e accompagnandolo a riconoscere  le pro­prie emozioni e a lavorare  sulle  proprie  convinzioni, distinguendo  nettamente fra la rigidità dei concetti  e il rigore del pensiero.  Seppu­re legata ad aspetti  più basilari della educazione e della genitorialità si potrebbe,  in sintesi, recuperare una  osservazione di Pellai: «Far crescere  un figlio significa permettergli di diventare chi è realmente  e, accompagnandolo lungo  un sentiero che   gli consenta di realizzare  il proprio  proget­to di vita, di conoscersi  e comprendersi fino   o in fondo  così da trasformare il proprio  po­tenziale  in risorsa per la sua  esistenza  e per   coloro  che  gli stanno accanto>> 12 . Attenzio­ne antropologica che non  può mancare nella  comunicazione del Vangelo  e nella  condivisione del sogno  di una Chiesa discepola e sinodale- e solo in quanto tale madré .

  1. Sognatori come Giuseppe, come Maria, come Elisabetta

Sogno e visione,  pur essendo  massicciamente presenti nella Scrittura (cfAt 2,17-l8//Gl3,l-5), hanno una  grande  forza  evoca­ tiva  anche  oggi, in  altri  sistemi  di linguaggio. Giocando su  questa polivalenza non  rinuncio alla capacità  di visione  di tre figure evan­ geliche,  iniziando da Giuseppe:  sognatore come il figlio di Giacobbe è  portatore, nella  sua  giustizia, di una  maschilità capace  di stare  di fronte nel rispetto  e senza  paura,  di una  umanità che riconosce  l'o­ pera dello Spirito  (cf Ml ,20)  in chi ha davanti.

Maria  ed Elisabetta,  non  a caso due  madri in attesa, mi piace in­vece presentarle con le parole  di Luisa Muraro, che ben  rendono il tratto per  un verso  autorevole e testimoniale (non  sono  queste  le sue  parole,  ovviamente), dall'altro radicalmente affabile  e benedi­cente e si prestano per questo a glossare l'intero percorso: si tratta di andare per il mondo come  Maria che «Va verso Elisabetta  portando quello che il mondo non è, non  sa, non  può dare»  o piuttosto come Elisabetta,  andare incontro al mondo e vedere che  è «incinta del suo  meglio»

2017

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di Cristina Simonelli