UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Desideriamo una Chiesa lieta: la dimensione festiva della gioia

La Chiesa è grembo attraente e fecondo di vocazioni. Perché essa torni a riconoscersi tale, senza cadere nella sterilità della lamentazione, occorre che ne riscopra continuamente il dono che le è dato. L’articolo ne ripropone una via, riscoprendo la traccia essenziale della liturgia, quale inesauribile annuncio della gioia cristiana.
23 Maggio 2018

Desiderare una  Chiesa  lieta,  perché sia grembo attraente di vo­cazioni,  è cosa possibile e auspicabile: nessuno può impedire  di farlo. Ma, come tutte le realtà  che hanno a che fare con la sfera è difficile pensare di poter fare della gioia un "comandamento", tanto più  un programma pastorale. Fatalmente e facilmente l'appello ad  una Chiesa  gioiosa  si  trasforma nella  lamentela per  la mancanza dei  giovani,  la stanchezza degli  adulti e la tristezza  degli anziani, con conseguente aumento di quel senso di frustrazione e de­pressione che contraddistingue tanti nostri discorsi pastorali.

La verità è che si può  comandare l'amore (cf Gv 13,34), ma la gioia no:  quella sopraggiunge come  l'effetto insperato di un dono ricevuto, ricono­sciuto e condiviso. Se la gioia non può essere comandata, può tuttavia essere  augurata:  «Rallegratevi nel Signore, sempre!"  (Fil 4,4). In comunione e in  continuità con  l'apostolo Paolo,  accogliamo la sfida di Papa Francesco a desiderare una Chiesa lieta,  per doman­darci,  insieme a lui,  dove  e come riattivare la  perfetta letizia  della fede.  La liturgia e la festa appariranno come  due  punti luminosi, al contempo sorgivi ed espressivi, nei  quali  riaccendere continuamen­te la gioia del Vangelo.

  1. Evangelium gaudium: un  invito alla gioia

Fin  dal suo  titolo,  Evangelii gaudium  (EG)  è un invito alla gioia: «La gioia  del vangelo riempie il cuore e la vita  intera di coloro che la gioia )   ( EG  l).  Contro la tristezza  di un  mondo malato di egoi­smo  e di consumismo, la fonte  della vera gioia è anzitutto ravvisata nell'incontro personale con il Signore,  dal quale  nessuno deve sen­tirsi escluso.

Contro la tristezza  di un cuore malato di individualismo e di vuo­to  interiore, la gioia della  fede si alimenta parimenti dell'incontro con gli altri, in special modo i poveri,  che risvegliano l'entusiasmo di fare il bene  (EG 2) . L'incontro del Signore,  infatti,  non ci chiude in noi stessi, ma al contrario ci riscatta  dalla nostra autoreferenzia­lità e ci conduce  al di là di noi stessi, verso  l'altro,  per giungere alla nostra umanità più  piena  (EG 8). si incontrano con Gesù ... Con  Gesù Cristo sempre  nasce  e rinasce. L'incontro con Dio e l'incontro con gli altri: da questo  intreccio indissolubile sgorga  la promessa di una  gioia che non viene  meno,

«Come una  segreta  ma  ferma  fiducia, anche  in  mezzo  alle  peggiori  angustie. Una piccola collana  di perle bibliche sul tema della  gioia  (EG  4-5)  è proposta  per custodire,  nel  cammino della vita,  la memoria grata  della  gioia  che scaturisce dall'incontro con l'amore  di Dio, manifestato nel Signore  Gesù.

La gioia nelle Scritture

La presenza del tema  della gioia nelle  Scritture fa pensare ad un firmamento di stelle  che rischiara  il cielo della  Bibbia.  Promessa  e incoraggiata dai profeti  («Sali su un alto monte, tu che annunci lie­te notizie  a Sion!), Is 40,9); contemplata nella creazione, che parte­cipa con il suo  canto  di giubilo alla gioia della salvezza  («Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra,  perché  il Signore  consola  il suo  popolo)), Is 49,13), la gioia si accende  nell'annuncio del Signore  che viene, nell'incontro con la sua misericordia: «<l Signore,  tuo Dio, in mezzo a te è un  salvatore potente. Gioirà  per  te,  ti rinnoverà con  il suo amore, esulterà per te con grida di gioia)) (Sof3,17). Tutte le imma­gini di gioia, legate  alla Torah  e all'esodo, al ritorno dall'esilio  e al tempio,  trovano unità  nella vicinanza del Dio che viene.

La tonalità dell'attesa e il movimento verso  il futuro trovano il suo  compimento nel  Vangelo  di Gesù,  «dove  risplende gloriosa  la Croce  di Cristo)) (EG  5)  e dove  la gioia ha  l'orizzonte  escatologico del  presente. È la gioia  di Maria  che  accoglie il saluto  dell'angelo («Rallegrati!)),  Le 1,28)   ed  esulta  nel  Magnificat;  la  gioia  di Gio­vanni nel grembo  di sua madre (Le 1,41) e alla vista di Gesù  («Ora questa mia gioia è piena)), Gv 3,29). È la gioia di Gesù, che in pre­ghiera  esulta  nello  Spirito  (Le  l 0,21)   e  promette ai  discepoli  una gioia piena,  che nessuno può togliere  (Gv 16,22). È, infine,  la gioia dei discepoli, che sono riempiti di gioia nel vedere  il Signore risorto (Gv 20,20), che condividono il cibo e i beni  con letizia  (cf At  2,46) e  portano una  grande  gioia  ovunque passano  (At  8,8). Si tratta  di una  «letizia perfetta))  (Gc l ,2), che non viene meno anche  in mezzo alla persecuzione (At 13,5 2) e che rappresenta quasi il distintivo del discepolo  che viene  alla fede, si pensi a Zaccheo, oppure all'eunuco battezzato e al carceriere di cui  parlano gli Atti  degli Apostoli:  At 8,3 9; 16,34. Il commento di Papa Francesco è incisivo:  «Perché non entrare anche  noi in questo fiume  di gioia?" (EG 5).

1.2 Una gioia seria

Eppure, avverte il Papa,  «ci sono  cristiani  che sembrano avere uno  stile di Quaresima senza  Pasqua))  (EG 6). La constatazione fa  subito  venire  in mente l'affermazione lapidaria  che il giovane  e un po'  triste  curato di  campagna descritto  dal  romanzo di Bernanos si sente  rivolgere:  «<ll contrario di un  popolo  cristiano è un  popolo triste>>. È lo stesso  atto  di condanna rivolto  dal filosofo  Nietzsche ai cristiani,  accusati  con il loro volto  triste di non essere  credibili a proposito della loro fede nella  Risurrezione.

Dietro  la tristezza, il Papa  riconosce  che vi possono essere diffi­ coltà oggettive,  che provengono dalle ferite della vita e dalle fatiche dell'assunzione delle  sofferenze altrui. Occorre  in  tal senso  stare molto  attenti a  non  cedere  all'illusione di una  gioia  superficiale, che nega  la sofferenza e misconosce la fatica  della  Croce,  come  se la  Quaresima fosse solo  una  parentesi della vita.  È lo stesso  Papa Francesco a ricordare  come  non  si possa separare la gioia della ri­ surrezione dalla serietà  di chi si china  sulle  ferite degli uomini: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani  mantenendo una prudente distanza  dalle piaghe del Signore.  Ma Gesù vuole  che toc­ chiamo  la miseria  umana, che tocchiamo la carne  sofferente degli altri.  Aspetta  che rinunciamo a cercare  quei  ripari  personali  o co­ munitari, che ci permettono di mantenerci a distanza  dal nodo  del dramma umano» (EG 270).

Resta vero,  avverte il Papa,  che se la risurrezione staccata dalla croce fa di noi  degli illusi, la croce staccata dalla  risurrezione fa di noi  dei delusi:  «Si sviluppa la psicologia  della  tomba, che  poco a poco trasforma i cristiani  in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla  Chiesa  o da se stessi,  vivono la costante tentazione di attac­ carsi a una  tristezza  dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore»   (EG 83).  Tale tristezza,  che  quando è frutto dell'indivi­ dualismo consumista si traduce in un ripiegamento individualistico e  in  un  calo  di fervore, va  combattuta come  una  vera  e propria catena, dalla quale  liberarsi  (EG 208). È contro  questa tristezza  che il Papa  insiste  sulla necessità di non  lasciarsi rubare la gioia dell'e­ vangelizzazione.

  1. La liturgia, sorgente di gioia

Ma dove ritrovare la gioia dell'evangelizzazione? A quali sorgen­ti abbeverarla e rinfrescarla? La risposta  di Papa  Francesco  mette in  gioco  anzitutto l'esperienza liturgica  della  preghiera: «La gioia evangelizzatrice brilla  sempre sullo  sfondo  della  memoria grata» dell'incontro con  il  Signore,  rinnovato nell'Eucaristia (EG  13).  Lì si riconosce  che tutte le difficoltà della vita  e dell'evangelizzazione vengono in secondo piano  rispetto al primato della sua presenza e del suo agire salvifico. Lì si impara a "festeggiare" e a celebrare ogni piccola vittoria,  ogni passo in avanti nella  vita cristiana:  «L'evangelizzazione  gioiosa si fa bellezza nella  Liturgia in mezzo all'esigenza quotidiana di far progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evan­gelizza con la bellezza  della Liturgia,  la quale  è anche  celebrazione dell'attività evangelizzatrice e fonte  di un  rinnovato impulso  a do­narsi))  (EG 24).

Il fatto che la liturgia  sia compresa  nel momento del festeggiare e del fruttificare, costituisce  un invito  a cercare sempre, nella ce­lebrazione liturgica,  i motivi  per lodare,  per magnificare il Signore per tutto  il bene  che, grazie a Dio, progredisce nel mondo. A questo proposito,   è interessante notare come i brani  biblici ai  quali  Papa Francesco  fa riferimento per descrivere  la gioia dell'evangelizzazione  ne siano quelli delle grandi feste della liturgia  cristiana:  la gioia messianica an­nunciata dal Natale, la gioia promessa da Gesù prima  di morire,  la gioia pasquale della comunità degli Atti degli Apostoli. La liturgia  appare, pur "sottotraccia", come sorgente che custodisce l'annuncio della gioia cristiana.

2.1 Orientarsi al Signore, per  convertirsi alla gioia.

Anche   per  la liturgia  rimane aperta la  questione di come  fare a gioire  tra le croci del mondo. Come  custodire il "tempo buono" della  gioia, senza  apparire dei "buontemponi"?  Nell'ambiguità dei "segni dei tempi",  che sollecitano ad una  profonda conversione per­sonale  e pastorale,  la gioia della fede invita  a valorizzare la liturgia come  "segno  del  tempo"  favorevole (il  kairos di cui si parla  in  Lc 12,56)  nel quale la grazia di Dio è offerta in Cristo. In essa lo sguar­do  del discepolo  missionario si nutre della luce  e della  forza  dello Spirito Santo  (EG 50), per discernere i "segni dei tempi" alla luce del Spirito Santo  (EG 50), per discernere i "segni dei tempi" alla luce del  "segno  del tempo" messianico che  è Gesù.  La liturgia  non chiude gli occhi di fronte alle miserie  del mondo, a ciò che manca  perché il Regno  venga,  al "non ancora" della salvezza: e tuttavia converte lo sguardo  del discepolo,  per orientarlo al Regno che viene,  che si è "già" pienamente manifestato nella  persona  di Gesù e si fa presente in ogni tempo e in ogni storia,  per salvarla  e guarirla.

A questo  proposito, occorre  prestare  attenzione al rischio  di un modo  ingenuo e poco  evangelico di voler  a  tutti  i costi  "portare la vita" nella  liturgia: nell'intento di scongiurare uno  spiritualismo indifferente agli altri, si introducono nella liturgia  quegli stessimo­ tivi di angoscia  e preoccupazione che  schiacciano le persone nelle loro  storie,  nei  loro  ragionamenti "senza  Cristo".  La questione è certo  delicata:  come sollevare  dai pesi della vita e della storia senza ignorarli? La liturgia ha la sua sapienza, levigata nei secoli: converte "orientando", cioè spostando l'attenzione da noi a Dio, dalle nostre miserie  alla sua misericordia (riti di inizio),  dai nostri  ragionamenti scoraggiati  alla sua Parola di speranza (liturgia della Parola),  dalla lamentela all'invocazione (preghiera universale e liturgia  delle ore), dalla cronaca  dei nostri insuccessi  alla memoria dell'opera di Dio (liturgia  del sacramento). Apparentemente distoglie dalla vita quo­ tidiana, in realtà  guadagna un  punto di osservazione più alto,  per guardare a quella stessa vita in un'altra prospettiva.

Questo  sguardo benigno e sereno, lo si può  ben  intuire, non  è scontato: deve animare coloro  che "animano" il rito, così da poter dire, senza  parole  e senza  bisticci di parole,  che la Chiesa è il frutto buono della Parola.  I bisticci di parole  sono  quelli  di linguaggi  che si smentiscono a vicenda: come  quando, ad esempio,  si dice che il Signore  è grande  nell'amore con la faccia triste; quando si annuncia la misericordia e nel frattempo si sgrida la gente;  quando si soffoca la  gioia  della  Pasqua  in  un  cerimoniale freddo  e antipatico. Se la parola  "gioia"  deve  risuonare maggiormente nella  liturgia,  questo non  deve  accadere  "a parole",  ma nella  verità,  nella varietà e nella bellezza  dei linguaggi  coinvolti nella  celebrazione.

2.2 La liturgia e i linguaggi della gioia

La liturgia  evangelizza  celebrando nella  gioia. Ma quali  sono  i linguaggi della gioia nella liturgia  e come rendere più gioiose le no­stre celebrazioni? Il pensiero corre  immediatamente a tutte quelle  espressioni che ricorrono all'interno della liturgia  e che risuonano come  un  invito  alla  gioia  del cuore:  «In  alto  i nostri  cuori!>>;  «La gioia del Signore  sia la vostra  forza!>>; «O Dio, che ci hai  donato la gioia di celebrare ... ». Ci si accorge subito  che non è sufficiente  annunciare e augurare la gioia:  è necessario che il tono  di voce,  il gesto,  l'atmosfera  ge­nerale siano  corrispondenti alla gioia che si annuncia. Non si può infatti  parlare  della gioia cristiana  con il volto triste. Si può obiettare che ciascuno partecipa alla celebrazione con la faccia che si ritrova e  non  può  mettersi a recitare,  con sorrisi  finti  e pose  di circostan­za. Nella liturgia  non si finge  e ci si accorge  subito  se una  persona quando celebra  diventa  "totalmente altro":  totalmente compassata nel  rito,  eccessivamente disinvolta nella  vita; o, all'opposto, melli­flua nella  celebrazione e scontrosa nella  quotidianità. E tuttavia la liturgia  ci invita  a fare  nostri  i sentimenti della  celebrazione, che sono  poi i sentimenti di Cristo e della Chiesa, per cui non si tratta di fingere,  ma  di fare ciò che la liturgia  ci invita  a compiere: esultare, lodare,  innalzare i cuori,  raccogliersi,  adorare, nel  rispetto  delle si­tuazioni di ciascuno  (chi è nella gioia, chi è nellutto) e nella ricerca di un  "volume" equilibrato. Tutto  questo  ricordando quella  legge generale della  liturgia,  che  dice:  «Nella liturgia  non  dite  quel  che fate,  ma fate  quel  che  dite!>>. Per fare  un  esempio,  si può  pensare a  quei  lettori  del salmo  che  fanno ripetere in modo stanco e un po' depresso  ritornelli di lode  e acclamazione, oppure a quelli  che, accorgendosi dello scarto  tra il contenuto e la forma  della lode, cer­cano di recuperare dicendo: «Ed ora ripetiamo con entusiasmo...!». Nessun invito  alla gioia sarà tanto potente come il fatto  di cantarlo, questo benedetto salmo  di gioia!

L'esempio  del salmo  responsoriale, ovvero  di un canto  non can­tato,  rinvia ad uno  dei linguaggi  più potenti e più adatti  per espri­mere  la gioia cristiana: quello del canto.  L'importanza del canto  per un'esperienza gioiosa della liturgia  è sotto gli occhi di tutti, nel bene e nel male. L'esperienza positiva  è quando, anche nel semplice  can­to del Gloria, dell'Alleluia (giustamente definito  come un "applauso canoro") o del Santo, l'assemblea ordinaria è pienamente  coinvolta, senza  che vi sia la necessità di sbracciarsi  in battiti di mani,  aggiun­gendo strumento a strumento. L'esperienza negativa è quella di una musica  sistematicamente assente e di un  canto avvizzito e trascinato,  oppure urlato  e maltrattato. Con la scusa  che non si trova  nes­suno che suoni o sostenga il canto,  non si cerca e non  si forma nes­ suno, tanto non  si tratta  di qualcosa  di essenziale! Non ci si accorge che la gioia appartiene a quel"di più", a quel"più che necessario", senza  il quale la vita non ha lo stesso sapore  e valore.

Ma il canto  non  è l'unico linguaggio chiamato a coinvolgere tut­ta la persona  - sensi, sentimenti, razionalità -nella gioia liturgica. È importante che il luogo  in  cui si celebra sia  uno  spazio "felice", dove ci si sente  a proprio  agio, dove la luce non è triste e i fiori non puzzano di vecchio. È importante che il colore dominante non dia un  senso  di grigiore.  È importante che il tempo sia disteso  e non frettoloso. È importante che almeno nelle feste i simboli propri  della liturgia  siano  valorizzati,  senza  andare alla ricerca di trovate strava­ganti:  sono  più che eloquenti le luci e l'incenso che accompagnano i ministri  nella  processione di inizio, il pane  e il vino  nella  proces­ sione  dei doni. È importante, finalmente, che i corpi siano  coinvolti nei  gesti  della preghiera e partecipino con  fervore,  così da buttare via le maschere che si sono  sedimentate sui  nostri  volti  e favorire quella  "dilatazione" del volto,  dello sguardo, del respiro,  del tempo e dello spazio  che esprime  la bellezza della gioia cristiana.

 

  1. La festa, dilatazione della gioia

È San Tommaso  che associa il termine delectatio, che indica il pia­ cere,  al termine dilatatio, che  indica  l'esperienza della  dilatazione, fisica e spirituale insieme,  che è conseguenza della gioia  cristiana. L'assonanza fonetica  tra l'aggettivo laetus (da cui deriva  la laetitia) e l'aggettivo latus (largo) fa pensare alla capacità della gioia di dilatare lo sguardo e il cuore,  oltre ogni chiusura, verso spazi di comunione e libertà. È quello che cerca di fare la festa, la cui vocazione è quella di dilatare  la gioia nella globalità  delle dimensioni della vita e nella totalità del coinvolgimento interpersonale.

Questa vocazione, che la festa porta con sé, è scritta  nei sensi del corpo,  prima  che nel senso  della mente: nella festa il"di più"  della gioia si esprime  in un  "di più" di luce e di canto  (sino all'eccedenza del grido),  di ebbrezza  di volto  e vestito,  di profumo e gusto,  di mo­vimento e contatto. In questa  eccedenza sensoriale, la festa prende sul serio i bisogni del corpo  (mangiare, bere, muoversi, toccare)  per aprirli  alla sfera  del desiderio; tocca  la vita "così com'è",  nella  sua  normalità e imperfezione, per aprirla  alla vita "così come  dovrebbe essere",  nella sua  pienezza  e nel suo  compimento escatologico,  che unisce sempre il corpo individuale con il corpo più grande della comunità.

In  questa  logica, la liturgia,  che  è al cuore  della  festa  cristiana, non può  rimanere isolata:  ha  bisogno  di un  prima,  da  preparare con cura  e dedizione,  e di un  dopo,  che espande nel tempo e nello spazio  la  gioia liturgica  dell'incontro che  salva.  Il tempo  della  fe­ sta illumina l'esperienza della  gioia, come attesa  prima  della festa, come  attimo benedetto nel  culmine celebrativo della  festa,  come memoria grata  dopo  che la festa  è finita,  ma la gioia rimane.

Pensando alla  festa  cristiana,   viene  in  mente la sicurezza  con cui la Chiesa ha sempre considerato la domenica come la festa  pri­ mordiale dei cristiani  (Sacrosanctum Concilium, l 06).  Guardando alle nostre comunità cristiane, l'impressione generale è che ad una  cer­ ta attenzione prestata alla qualità  festiva dell'Eucaristia domenicale non corrisponda uguale attenzione alla qualità  festiva del giorno  del Signore  e dei "piccoli riti" chiamati a liberare  e dilatare  la gioia. Tali sono  il rito del pasto familiare  e comunitario, che dilata la comunio­ ne eucaristica; i momenti del dialogo e dell'incontro con le persone care e con quelle  sconosciute, che dilatano i confini  del nostro io e la percezione del tempo  liberato; i gesti del movimento, dello sport, della danza, che trasformano la lode in ludus, il corpo in "gioco" che dilata la gioia e la libertà.

Lodare,  ringraziare, incontrare,  mangiare, danzare, giocare,  ri­dere,  riposare,  correre,  camminare: sono  i verbi  della  festa,  attra­verso i quali prende  forma  la gioia cristiana. Sono  azioni complesse da attivare, dal momento che hanno bisogno  di spontaneità e insie­me di una  certa disciplina,  proprio come il rito. Là dove la comunità impara  l'arte  della festa  comunitaria, quest'ultima non diventa  più la scusa o l'occasione pastorale per fare delle cose, allo scopo di rianimare la comunità.

La festa  diventa l'in­ contro  dei sensi con il senso  pasquale della vita: il luogo teologico in cui la vita è evan­gelizzata a partire  dai bisogni e dai desideri del cuore;  il tempo nel  quale  il Vangelo  è

incarnato in una  promessa di vita che non mette tra parentesi le fa­tiche della terra,  ma lascia intravedere, alla luce di un cielo più alto e di una speranza più grande,  il tempo dei fiori e dei frutti; lo spazio in  cui il "corpo  spirituale" entra  in  comunione con  il corpo  degli altri,  della comunità, del creato stesso,  in quella  "fraternità mistica"«che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo,  che sa scoprire Dio in ogni essere  umano}} (EG 92) e sa riscoprire  «il piacere  spirituale  di essere popolo}} (EG 162 )

  1. La comunione, fonte zampillante della gioia cristiana

Nel culmine "mistico" della  festa  (nel senso  di quella  «mistica del quotidiano}} di cui parlava  Rahner), così come nel culmine mi­ sterico  della  liturgia,  è finalmente l'esperienza della  comunione a rivelarsi  quale  sorgente zampillante della vera  gioia. È una  comu­ nione  che  trova  la sua  sorgente prima  e ultima  nella  comunione al corpo  eucaristico di Cristo, dove l'incontro con il Signore  si sal­ da indissolubilmente con l'incontro con i fratelli.  Qui risplende «la gratuita carità}} (Giovanni Crisostomo)   che  è all'origine della vera festa  e della vera gioia. Alle nostre  comunità il compito  di attingere con fiducia e sapienza a questa fonte,  per abbeverarsi dello Spirito di quella  carità che è sorgente non solo di gioia e pace, ma pure  di nuovo slancio  evangelizzatore e di nuove vocazioni.

 

 

 

 

2017

1

di Paolo Tomatis