UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Testimoni di una Chiesa marcata a fuoco dalla missione

Tavola rotonda Coordinata da Gabriella Facondo Giornalista, TV 2000, Roma Storie, persone, riflessioni che  incrociano in tanti modi diversi il tem del  Convegno Nazionale "Alzati, va' e non  temere". C'è un Vescovo che opera in Albania, paese oggi alle prese con una rinascita complessa, che   per anni ha bandito il nome di Dio  dal  suo […]
19 Giugno 2018

Tavola rotonda Coordinata da Gabriella Facondo Giornalista, TV 2000, Roma

Storie, persone, riflessioni che  incrociano in tanti modi diversi il tem del  Convegno Nazionale "Alzati, va' e non  temere".

C'è un Vescovo che opera in Albania, paese oggi alle prese con una rinascita complessa, che   per anni ha bandito il nome di Dio  dal  suo orizzonte, comunque lo si pronunciasse, incarcerando, torturando, uccidendo sacerdoti cattolici, suore, credenti laici  e or­todossi, musulmani,  sufi bektashi e arrivando a  definirsi nella sua Costituzione "primo stato ateo  al mondo".

C'è una coppia di genitori che si è data il compito di  contribuire a  rendere migliore questo nostro mondo rimettendone al centro la famiglia e testimoniando la gioia del  Vangelo, con altre nove coppie e tutti i loro figli,  a partire da una grande casa che ha un nome bel­ lissimo: "Casa della Tenerezza", sorta a Perugia più  di dieci anni fa,

vale a dire assai prima che Papa Francesco ci esortasse a  diventare protagonisti, con i  fatti più   che con le  parole,  della "Rivoluzione della Tenerezza".

C'è una suora missionaria dal  nome spagnolo che  oggi  vive con ardore nel nostro Paese, ma che nel cuore conserva l'amore per il luogo dove per sette anni si  è  adoperata a costruire "ponti e non muri" e  per questo ha ricevuto, con le  consorelle, un premio im­ portante nel 2015. Quel luogo è la Terra Santa, dove un muro, chi­ lometri di filo spinato, fossati come trincee separano due popoli e sembrano seppellire ogni speranza di  pace. E invece...

E infine, un atleta olimpionico che da Rio,  nel settembre scorso, è tornato a casa nella sua Puglia con tre  medaglie al  collo, un atle­ta la  cui  vicenda ci  dice  molto sulla forza rigeneratrice dello sport, sul suo effetto moltiplicatore quando in se  stessi si scoprono talenti sconosciuti e si comprende che in vetta non ci si trova mai per caso e più  che esserci conta il modo in cui  ci sei  arrivato.

Sono testimonianze che parlano di forza, di pazienza e di speran­za  e di come davvero «Se riesco ad aiutare anche solo una persona a vivere meglio, con l'esempio, con le  azioni, con le  parole, questo è già  sufficiente a giustificare il dono della mia vita>> (EG 2 74).

 

Ottavio Vitale

«Sono   Ottavio   Vitale,  vescovo   di Lezhe in Albania, nato a Grottaglie il 5 febbraio 1959 e  da 24 anni missionario in Albania. Appartengo alla Congrega­ zione dei  Padri Rogazionisti.

Il  l O giugno 199 3  sono stato inviato come missionario in Albania. Ricordo la sera in cui  ho preso il traghetto da Bari. Mi  sono imbarcato con non molto entu­ siasmo. Poiché i  miei superiori avevano insistito, allora ho ceduto alla loro richie­

sta, ma non senza difficoltà e con poca convinzione.

Durante il tragitto da Bari a Durazzo ho conosciuto alcune suore che andavano in Albania e alcuni giovani albanesi. Fino a quel mo­ mento non avevo ancora sentito una sola parola albanese. Dell'Al­ bania avevo ascoltato un po' la lingua da mio padre, perché durante la  seconda guerra mondiale era stato in quel Paese.

Sul traghetto ho conosciuto alcuni giovani albanesi e  da  loro ho sentito una parola albanese (Durim). Chiesi subito il significato, che sarebbe stato poi tutto il programma della mia esperienza missiona­ ria in Albania. Mi  risposero che "Durim" significa "Pazienza" e  da quel momento ne avrei dovuta avere tanta.

Sbarcato a  Durazzo mi resi subito conto di  trovarmi in un Pae­se di  50  anni più indietro. Fui  assalito dalla malinconia e la  prima reazione fu  quella di voltarmi indietro e risalire sul traghetto. Ma  la presenza degli altri che erano con me mi ha fatto cambiare subito idea.

Lungo il tragitto guardavo in ogni direzione per rendermi conto a  cosa andavo incontro. Strade dissestate che   sembrava avessero subito un bombardamento; gente che lavorava nei campi; gente ac­ covacciata ai  cigli  della strada senza fare nulla.

Ci fermammo per attendere gli  altri e  per fare una sosta. Sem­ brava di aver fatto chissà quanti chilometri. Mi si avvicinò un uomo di  mezza età che parlava in italiano. Era già  una sorpresa. Sono in molti coloro che  in Albania parlano italiano e  questo mi dava un po' di coraggio.

Parlai con quell'uomo  che affermava di  essere musulmano e  di avere 3  o 4 mogli. Queste erano nuove scoperte per me, trovarmi a che fare con persone di altre religioni.

Poi  mi rivolse una domanda  che mi lasciò perplesso. Mi  chie­ se:  «Tu quante mogli hai?)). Per  me era scontato che l'essere prete comportasse la  scelta del  celibato, ma non aveva capito il mio stato di vita. Gli risposi che non ero sposato. Lui  rimase quasi mortificato a tal  punto che si rese disponibile a darmi una delle sue mogli.

Gli ero diventato subito simpatico anche perché ero italiano e gli albanesi hanno una buona considerazione degli italiani. Ma arriva­re  al  punto da darmi una delle sue mogli... questa proprio non me l'aspettavo!

Le  prime settimane in Albania non sono state facili perché non ero abituato a quello stile di  vita con privazioni e adattamenti.  Poi ho cominciato a  conoscere tanta gente e soprattutto ho iniziato a girare per le  famiglie e  ho familiarizzato con loro e  ho conosciuto quella realtà.

Questo mi permetteva di  toccare con mano la  condizione di  po­

vertà con la quale sono entrato da subito in contatto. Ma nello stes­ so  tempo ero meravigliato di come la  gente fosse serena e si accon­ tentasse di  po co.

Tante esperienze mi hanno segnato, ma una in particolare. Un

giorno sono us cito con uno dei  nostri seminaristi per fare la  visita alle famiglie e la benedizione.

Arrivato davanti ad  una casa mi viene incontro una vecchietta. Si getta ai miei piedi prendendomi la mano e baciandola continua­mente,  dicendo qualcosa che  per me era incomprensibile. Chiedo al ragazzo che mi accompagnava di  tradurmi  cosa stesse dicendo. E lui mi risponde che quella vecchietta stava ringraziando Dio perché finalmente dopo tanti anni poteva vedere un prete e che ora poteva anche morire.

L'Albania infatti per oltre 40  anni è stata succube di uno dei  regi­ mi comunisti più duri dell'ultimo secolo, a tal punto da introdurre nel proprio ordinamento una legge che considerava l'Ateismo come religione di Stato.

Non sono mancati momenti di paura. Durante il periodo di anar­chia (1997), a causa di proteste popolari che sono sfociate nel disor­dine assoluto, non esisteva più  lo  Stato e la gente era tutta armata. Un giorno, tornando a casa in macchina, mentre giravo per una strada di campagna, mi ritrovai davanti un uomo con un fucile pun­tato. Sembrava ubriaco. In quel momento ho avuto la  percezione che per me fosse finita. Invece quell'uomo si accostò al finestrino, vide che ero un prete, si fece il segno di croce e andò via.

Un altra volta, di sera, mi trovavo sul  terrazzo di casa a recitare  il rosario e andavo su e giù. Spesso in quel periodo di anarchia, tante persone sparavano in aria solo per divertimento e molti sono morti a causa di  proiettili vaganti.

Un fatto simile è accaduto a me, al  termine della recita del  mi­stero del  rosario, mi voltai indietro e  in quel momento mi cadde davanti un proiettile. Ho  ringraziato la Madonna per questa grazia.

Nonostante queste "belle esperienze", il  mio pensiero di  voler tornare in Italia era sempre vivo, e chiesi ai miei superiori di  rien­ trare in Italia. Nel  frattempo però la  diocesi di Lezhe, dove mi tro­ vavo, si era resa vacante e si doveva nominare un Amministratore diocesano fino a quando non sarebbe arrivato un nuovo vescovo.

Il Consiglio presbiterale pensò di affidare questo incarico a me. Quindi dovetti aspettare prima di  rientrare in Italia, secondo quello che  era il mio desiderio. Dicevo infatti che era una situazione di emergenza che sarebbe durata poco. Intanto però passarono due anni.

Decisi di  andare a  Roma per parlare con il mio padre generale ed  esporgli il mio problema. Mentre ero nel suo ufficio arrivò una telefonata dalla Nunziatura apostolica di Tirana che mi comunicava che il Santo Padre (Giovanni Paolo II) mi aveva nominato Amministratore apostolico di Lezhe. Era  il giorno del  mio compleanno. «Bel regalo! pensai.

Dovetti rimandare il programma di  rientrare in Italia e  dicevo a me stesso di avere "pazienza", perché tanto sarebbe durato solo un tempo limitato.

Passarono 5  anni e  nubi grigie intravedevo  all'orizzonte. Capii che c"era la  possibilità che  la  Santa Sede nominasse me come ve­ scovo. Allora decisi di  andare a parlare con il Card. Sodano, allora segretario di Stato Vaticano. Gli  dissi  che desideravo non essere no­ minato vescovo. Lui,  con molta semplicità mi disse che era impor­ tante fare la Volontà di Dio.

Dopo alcuni giorni decisi di andare a parlare col  Nunzio aposto­ lico  a Tirana e chiedergli in maniera ferma e convinta di non essere nominato vescovo perché il mio desiderio era di  ritornare in Italia. Mentre lo attendevo nella sala ospiti, il  Nunzio arrivò dicendomi subito: «Devo darti una bella notizia. Il Santo Padre Benedetto XVI ti ha nominato vescovo di Lezhe». Sono rimasto senza parole, ma nello stesso tempo era come se  tutte le  paure crollassero e  capissi subito che fosse importante fare la volontà di Dio.

Da  quel momento non ho avuto più paura né tanto meno il de­ siderio di  tornare in Italia perché il  Signore mi ha fatto capire che quello era il mio posto.

Questo non vuol dire che tutto va bene. Le sfide da affrontare da

quel momento sono state tante, ma rimanendo sereno e sentendo­mi parte integrante di questo popolo».

Stefano Rossi e  Barbara Baffetti, Comunità "Casa della Tenerezza"

-Perugia

 

Stefano Rossi e Barbara Baffet­ti  sono una delle nove coppie che compongono, insieme a don Carlo Rocchetta, la  comunità stabile del Centro Familiare Casa della Tene­rezza.  Sono  sposati  da   ventidue anni. Hanno avuto in dono quattro figli;  la prima Rachele, che è in

cielo e  che dicono sia  il loro speciale angelo custode, e gli  altri tre, qui in terra, Fabio di  diciotto anni, Ester di sedici e Pietro Maria di dieci. Stefano lavora in banca e  Barbara, dopo essersi dedicata per anni, a tempo pieno, a  fare la  moglie e  la  mamma,  oggi si  divide tra gli impegni familiari e la sua passione di ragazza, scrivere. Cura in particolare testi religiosi per bambini. Segue anche un progetto sull'Affettività e il Rispetto, promosso nelle scuole perugine di ogni grado.

Da  quattordici anni, insieme a tutta la loro famiglia, fanno parte della comunità stabile del  Centro familiare "Casa della Tenerezza". La  Comunità è attualmente formata da  don Carlo Rocchetta, dieci coppie con 33 figli  e  una consacrata laica. Il  progetto è  quello di una "famiglia di famiglie", comunità di vita e  di servizio. Ciascuna coppia o singolo è autonomo, anche economicamente, ma si impe­gna a contribuire alla vita e alle attività della Casa con la  decima del proprio stipendio e rendendosi disponibile al servizio del  Centro. La Casa ha una propria regola scritta nel "Libro di  Vita" approvato in via  definitiva dal  Card. Bassetti. Il Centro ha come carisma specifico e programma di vita di divenire "Scuola di tenerezza" sia  per coloro che lo costituiscono come comunità stabile, sia  per quanti lo incon­trano nel percorso della loro vita. Consapevole che «il  bene della persona umana e  della società è strettamente legato al  bene della famiglia>>  (GS  48;  PC  3;86) e che la  stessa Chiesa è  una "famiglia di famiglie", la  CdT si impegna a costituirsi come centro di spiritualità coniugale, di  pastorale familiare e  di  riflessione cristiana, attivando opportune iniziative al servizio della famiglia, in particolare di quel­la ferita dalla crisi. In quest'ottica ogni coppia della Comunità segue percorsi per coppie in ogni stadio di  vita: fidanzati, giovani coppie, coppie in difficoltà.

Stefano e Barbara, nello specifico, accompagnano, ormai da tre­dici  anni, insieme a Padre Marco Vianelli ( o.f.m. e  Parroco di S.M. degli Angeli in Assisi), il  gruppo "Berit", percorso nato a sostegno di  tutti gli  sposi che vivono in condizione di  separazione,  divor­zio  e nuova unione; tale accompagnamento vuole essere umile espressione della Chiesa Madre, capace di  uno sguardo inclusivo e di  un'accoglienza fatta di forte tenerezza nei riguardi anche di ogni famiglia lacerata.

Da  tre anni Barbara, dopo un corso di  alta formazione all 'Uni­versità Cattolica di  Roma, è conduttrice anche dei  c.d. "GRUPPI DI PAROLA", un  percorso  per i figli  di  sposi in condizione di  separa­zione e  divorzio, nella consapevolezza che ogni bambino ha diritto a  trovare uno spazio protetto in cui   dare parola anche al proprio dolore e dove trovare uno sguardo di speranza sul  proprio futuro. Dal  2013, Stefano e  Barbara, sono stati chiamati anche a  dare il loro contributo come Responsabili dell'Ufficio di  Pastorale per la Famiglia della Regione Umbria, impegno che   ha permesso loro di gustare il respiro ampio della Chiesa e  dello Spirito Santo, parteci­pando anche alla Consulta Nazionale di  Pastorale Familiare.

 

Suor Alida Vacas Moro (comboniana) Missionaria comboniana,  spagnola,

medico: suor Alicia Vacas Moro attual­mente  presta il  suo servizio accuden­do le  suore anziane del  suo istituto, a Verona. Dopo sette anni in Egitto, dal

2008 ha trascorso un lungo  periodo a Betania.  Giunta  in  Terra santa  dopo una cruenta fase di  tensione  tra israe­ liani e  palestinesi, ha vissuto "il  dram­ ma di  due popoli divisi" e  ha accudito le   popolazioni  cristiane  e  musulmane nella Striscia di  Gaza dopo l'operazione "Piombo fuso". La religiosa ha racconta­

to le  sofferenze che ha visto nelle popolazioni locali. «La  Gaza che ho trovato era uguale alla Aleppo di  oggi>>, tra morti, feriti, soffe­ renze, distruzioni. «Come suore ci siamo date il compito di tende­ re  una mano a  chiunque>>, indipendentemente dalla nazionalità o dalla fede religiosa, «Una mano tesa al  di  là  del  muro che separa>> israeliani e palestinesi. «Tante persone ci chiedevano: Ma dov'è Dio a Gaza? E io scoprivo che era nelle rovine, anche nelle mie rovine, nelle mie debolezze>>. Sollecitata dalle domande della moderatrice, suor Alicia ha spiegato: «Siamo lì, in quelle terre, per testimoniare la  ri conciliazione,  la  verità, la  pace, non  certo per schierarci con l'una o con l'altra parte. Per  portare riconciliazione occorre vivere riconciliati».

Luca Mazzone (atleta paralimpico)

«A  me piace raccontare la  mia sto­ ria   partendo  dall'inizio, dall'inciden­te,  non  dalle medaglie di  oggi. Luca Mazzone, due medaglie d'oro e una d'argento ai  Giochi paralimpici di  Rio, ha  portato la  sua  esperienza di  vita, di  scelte,  di  fatiche, di  nuove speran­ze.  «Il  5 luglio 1990 ero un giovane di

19  anni come tanti altri, con ambizio­ ni, voglia di  divertirmi. Quel giorno al mare ho fatto un tuffo e  ho inciden­

talmente battuto la testa. Sono rimasto tetraplegico. Immobile in un letto di ospedale mi era crollato il mondo addosso. Avevo voglia di farla finita>>. Luca Mazzone spiega poi  del  sostegno e dell'amore ricevuto dalla famiglia, delle lunghe e dolorose cure riabilitative che lo porteranno a riprendere gran parte dei  movimenti delle braccia e delle mani. Ora l'atleta è sposato e padre di  un bambino. Nel2000 ha partecipato per la prima volta alle Paralimpiadi come nuotatore; dopo un periodo di abbandono dello sport è passato alla hand-bike, con la  quale sono giunti i recenti successi. «La  famiglia, con i suoi valori, il sostegno, mi ha spinto a  ripartire dopo l'incidente. La di­ sciplina sportiva mi ha insegnato molto altro, a lasciare il  divano, a non arrendermi. Bisogna avere il coraggio di alzarsi e  ripartire». Mazzone torna con la  memoria all'aiuto  «ricevuto da una suora, quando ero in ospedale, perché mi ha fatto capire che dovevo cre­ dere in me stesso».

«La vita ora mi sta dando tanto- riconosce Mazzone -: la fami­ glia, la  fede, lo sport. Ma anche le sconfitte hanno  il  loro valore, perché insegnano a misurare i propri limiti, a migliorarsi per andare avanti».

 

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di AA.VV.