UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sogniamo una Chiesa “inquieta”

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». Nelle parole di Papa Francesco alla Chiesa Italiana troviamo l’intrigante invito ad una Chiesa inquieta, non statica e ripiegata su se stessa.
23 Maggio 2018

Cerchiamo di capire l'aggettivo con cui Papa Francesco  descri­ve una caratteristica che  nell'intervento al Congresso  di Fi­renze- auspica  per la Chiesa italiana.
Il dizionario italiano alla voce  inquieto recita:  «Che è in stato  di agitazione, irrequieto; di qualcuno che ha  l'animo travagliato, tur­bato). Anche gli altri significati  proposti sono  sul versante semanti­co dell'angoscia. Non sembra  una  pista percorribile: non si desidera una  chiesa angosciata! Ma in-quieta.

Sempre nel vocabolario leggiamo: «Quieto: chi è in stato di quiete [stato di ciò che è immobile], che non si muove  o si muove con moto lento  e regolare>>. La gamma  di significati  proposta  pare  più vicina al pensiero del Papa che a Firenze  affermava: «Mi piace una  Chiesa italiana  inquieta: sempre  più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti Una chiesa non immobile ma che combatte  contro  le tentazioni di pelagianesimo e gnosticismo  che  vorrebbero rinchiuderla in securizzanti conservatorismi e fonda­mentalismi; una   Chiesa  che  si  avventura per la via della creatività,  dando  spazio alla leggerezza del soffio dello Spirito. In una  recente pubblicazione, il Presidente  nazionale dell'Azione Cattolica, Matteo Truffelli, rilancia l'aggettivo in questione e ne chiarisce la genesi: «È tempo di essere credenti inquieti. Resi tali dal Van­gelo, dall'incontro con il Signore,  dall'urgenza che questo  incontro fa nascere  dentro ciascuno  di noi, "dal momento che se uno ha fatto realmente esperienza  dell'amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto  tempo  di preparazione per andare ad annunciarlo..." (EG 120). È tempo  di essere irrequieti, non  tiepidi, né timorosi».

Truffelli- e noi con lui- vede l'appello di Papa  Francesco  come invito  a «passare da un prudente 3-5-2,  tipico di chi è attento a non scoprirsi  in difesa, è abituato giocare di rimessa,  convinto di doversi adattare all'iniziativa di squadre più  forti,  a  un  più  spregiudicato 4-3-3,  vocato  all'attacco, a giocare  a tutto  campo,  facendo  ricorso alla fantasia,  all'estro, alla coesione  tra i reparti. Un modulo di gioco più rischioso  che forse ci espone al contropiede, a prendere qualche gol perché  ci potremmo far trovare sbilanciati  in avanti,  e che forse chiede  anche di correre  di più, ma  che non  rinuncia mai a "fare  il gioco"

Fare gioco: questo  il sogno!  Sogno,  categoria  biblica  di rivelazio­ne,  quando Dio può  entrare nelle difese allentate della sua creatura e proporle un  orizzonte alla  propria  misura. Sogno  di una  Chiesa in-quieta.

  1. Dalla rigidezza del pelagianesimo alla  leggerezza del Soffio

 

Per raggiungere l'obiettivo la prima delle tentazioni da cui guar­darsi è il pelagianesimo- sottolinea Papa Francesco  alla Chiesa Ita­liana - che  «ci porta ad avere  fiducia nelle strutture, nelle  organiz­ zazioni, nelle  pianificazioni perfette perché  astratte. Spesso ci porta pure  ad assumere uno  stile di controllo, di durezza,  di normativi­tà... In  questo  trova  la sua  forza,  non  nella  leggerezza  del  soffio dello Spirito».

Per questo  il Pontefice  invita  a cercare soluzioni non «nella  re­staurazione di  condotte e  forme  superate che  neppure cultural­mente hanno capacità  di essere  significative». Infatti  «la dottrina cristiana  non  è un  sistema  chiuso  incapace di generare domande, dubbi,  interrogativi, ma  è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove  e si sviluppa,  ha carne  tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.

Cosa può significare  tutto  ciò in ottica di pastorale  vocazionale? Da quali  domande potrebbe lasciarsi attraversare?

Ne indichiamo una  fra  le tante: senza  preti?  La prendiamo in prestito  dal titolo  di un  agile libretto scritto  da «Un laico  che ama la Chiesa»3  e che può  essere oggetto  di dibattito in seno  alle nostre équipes vocazionali. L'ottica in cui si pone l'autore è quella  del Vati­cano  II, che presenta una  Chiesa ministeriale i cui pilastri sono Eu­caristia, Parola e servizio della Carità. Per questo,  scrive Campanini:

«Quella  che  oggi viene  concepita  come  una  drammatica crisi - l'assenza  dell'Eucaristia soprattutto in zone  disagiate  e marginali,  a causa del ridotto numero di presbiteri- è dunque una sfida a ripensa­re la vita della Chiesa nella sua globalità e ad individuare nuove  figu­re ministeriali,  al maschile  e al femminile,  fino a divenire  una  Chiesa che respira a due polmoni, quello maschile  e quello femminile>>

Concedendoci al soffio leggero dello Spirito, si potrebbe aprire  il Codice di Diritto  Canonico e trovare, al canone 517.2,  la possibilità offerta  al vescovo  diocesano di affidare  «una  partecipazione nell'e­ sercizio  della  cura  pastorale di una  parrocchia» ad  un  «diacono  o a una  persona  non  insignita del carattere sacerdotale o ad una  co­ munità di persone», costituendo un  parroco moderatore della cura pastorale  stessa.

Il Concilio  (LG 19) aveva sollecitato  le chiese locali ad individua­ re modalità concrete per reintrodurre il diaconato come  ministero permanente. Le diverse  chiese, nel mondo e in Italia, hanno seguito percorsi  articolati. Da più  parti  si avverte la necessità di riprende­ re la  riflessione  e  di rimotivare la  pastorale   di questa vocazione. Non  ultima, la provocazione per  un  diaconato femminile, con  le sue radici nella  Chiesa delle origini, da vagliare e comprendere. In­ dubbiamente la Chiesa  in uscita  invocata da  Francesco  deve  farsi sempre più prossima  alla  gente  e, in  tale  prossimità, la figura  del diacono potrebbe essere  efficace. La specificità  di un  servizio  non solo liturgico,  ma  a  360  gradi, porterebbe il raggio  di azione  delle nostre comunità lì dove lavoro  e mancanza di lavoro,  famiglia e sua disgregazione, cultura e tempo  libero  attendono un  ascolto  e una parola  che sia a servizio  del bene  di tutti. Anche  la vita consacrata, nella sua forma diaconale, potrebbe ripensare la propria  presenza in seno  alla Chiesa particolare in ottica pastorale.

Indubbiamente, poi, la vita  religiosa femminile, non meno che la vocazione  al presbiterato, attraversa una  difficile situazione; tut­tavia l'interazione con la comunità e il territorio in cui si vive, al di là delle forme  tradizionali di servizio,  potrebbe offrire nuovo volto e nuove aperture alle comunità e alle giovani  che desiderano porsi a servizio  della  Chiesa.  Le incognite sono  molteplici. Il rischio  di proseguire per una  via di supplenza - prima  allo Stato,  carente sul piano sociale, ora ai quadri pastorali- resta alto. Anche  qui la legge­rezza del Soffio appare  indispensabile per non  appiattirsi su modelli consolidati, spesso  unicamente centrati sulla  figura  del presbitero,

per aprirsi  alla creatività di una  pastorale  inclusiva,  che faccia leva sulla universale vocazione  alla santità e sul­la altrettanto universale chiamata ad essere protagonisti nell'annuncio del Vangelo.

Senza  preti? La domanda si convertireb­be così in: quali vie per nuovi ministeri?

  1. Dalla solitudine dello gnosticismo alla tenerezza dell'in­contro

 

La seconda   tentazione che  Papa  Francesco invita  ad  evitare   è lo gnosticismo, che  «porta  a confidare nel  ragionamento logico e chiaro,  il quale  però  perde  la tenerezza della  carne  del  fratello>>. A  questa  tentazione si reagisce  scegliendo vicinanza alla  gente   e preghiera: «Vicinanza alla gente  e preghiera sono la chiave  per vi­ vere  un  umanesimo cristiano popolare, umile,  generoso, lieto.  Se perdiamo questo  contatto con il popolo  fedele  di Dio perdiamo in umanità e non  andiamo da nessuna parte».

Il richiamo del Pontefice  a Firenze  a vivere  un  umanesimo cri­stiano popolare, umile, generoso, lieto,può essere declinato in articolati cammini vocazionali. La vita  consacrata, ad esempio,  a cui appar­tiene  intimamente l'identità di pellegrina  arante in limine  historiae si pone  domande forti  su come  accettare di misurarsi con  certez­ze provvisorie, con situazioni nuove, con provocazioni in processo continuo, con istanze  e passioni gridate  dall'umanità contempora­nea;  custodendo la ricerca  del volto  di Dio e la sequela  di Cristo. Una  vita  consacrata che  si lascia  guidare   dallo  Spirito,  per vivere l'amore per il Regno con fedeltà  creativa  e alacre  operosità.

Ma la domanda radicale  è scritta sulla "carne  del fratello".  Come porci  così vicini  da leggere  ogni  ruga,  ogni fremito di dolore  e di gioia? Come  lasciare  che lo Spirito  tolga da noi il cuore  di pietra  e lo renda  cuore  di carne,  cuore  su cui lo Spirito stesso  può  incidere la parola  alleanza?

Presentiamo queste  domande a due  donne, l'una del Vangelo, l'altra  nostra  contemporanea.

 

  1. Elisabetta e Madeleine, icone della libertà nello Spirito

 

Elisabetta, profezia sulla novità di Dio

Elisabetta  è donna, come  tante,  segnata dalla sterilità,  ma  pro­ feticamente aperta  sulla  novità  di Dio; donna inconsueta, che ha segnato la storia  della salvezza non  con un  "sì", ma  con un "no"!  Il "no"  di una  donna a ciò che è stantio nella accoglienza della fede si rivela un  "sì" alla gratuità della salvezza7 .

Leggiamo  in  Luca 1,57-60: «Per  Elisabetta  intanto si compì  il tempo del parto  e diede alla luce un figlio. I vicini e i consanguinei seppero che il Signore  aveva  largheggiato in misericordia con lei e gioivano  insieme  a le. Otto giorni  dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome  di suo  padre,  Zaccaria. Ma sua madre intervenne: "No! Si chiamerà Giovanni")).

Luca ci presenta Elisabetta,  cugina  di Maria,  tra l'ombra del na­scondimento in cui si è ritirata  per la maternità imprevista e l'esul­tanza  dell'incontro con Colei che sarà la madre  del Messia. Vissuta all'interno dell'osservanza fedele  e puntuale che l'essere  moglie  di un  sacerdote le  richiedeva, portava nel  proprio  nome  Elisabetta, "Dio ha  giurato" e in  quello  del marito Zaccaria,  "il Signore  ricor­da", il sigillo della fedeltà  di Dio alla promessa.

Eppure  la promessa sembrava imbrigliata, imbavagliata dalla lin­ gua  stessa di colui che avrebbe dovuto annunciarla. L'incontro nel tempio con il messaggero di Dio, infatti,  è avvolto  nella incredulità di Zaccaria e genera  il suo mutismo. Senza possibilità di ascolto non si apprende ad articolare suoni; senza  un ascolto  credente della Pa­ rola non si può  profetare!

«Se la pietà  del Tempio  era affidata  al ruolo  maschile e conser­vativo  dei sacerdoti, la fede cristiana  si apriva  sulle braccia laiche  e femminili delle madri, giovani  o anziane, giudee  o galilaiche  che fossero;  se il Dio del Tempio  era  protetto dai  recinti  esclusivi  del culto  e della  rigida  precettistica, il Dio dello  Spirito  batteva strade senza  confini  e senza  muri,  includendo ogni umanità e annuncian­do la salvezza per tutti. Elisabetta è una  donna capace di gratitudine e di libertà,  di profezia  e coraggio. La salvezza  per Israele non  verrà dall'ortodossia del sacerdote del Tempio, ma dalla fede di una  don­na che, come lei, non aveva mai smesso  di attendere.

L'attesa  aveva  scavato in Elisabetta lo spazio  per l'imprevisto di Dio: Giovanni  il suo  nome! Giovanni, cioè "dono di Dio". «No! Si chiamerà Giovanni! Così si chiamerà perché   quel  figlio è venuto dalla promessa di Dio e non  dalla virilità  della stirpe  di Levi. Questa è  la verità!  Lei ne ha  respirato ogni letizia,  ogni sorpresa, ogni in­ sperata gratuità.

All'interno di una  cultura che conservava il proprio  legame  con Dio entro forme stantie- per riprendere i termini di Papa Francesco -vittima ante litteram di pelagianesimo e gnosticismo, il no di Elisa­betta  si oppone alle reiterate insistenze dei parenti con inconsueta forza,  con  una  tenacia  che si prolunga fino  a contagiare la  debole fede del marito:

«Succede  qualcosa  di speciale,  proprio mentre i vicini si aspet­tavano da lui che tenesse  ben salda la ragione  della sua tradizione: Zaccaria chiede  una tavoletta. E su di essa scrive il nome  di Giovanni! In quel  preciso istante gli si scioglie la lingua  e riprende a parla­re: il primo segno  tangibile  del"dono di Dio" per Zaccaria! Dono  di Dio e dono  di sua moglie Elisabetta.

Nasce da questo  incontro una  comunità stupita, capace di far echeggiare la novità di Dio tra le colline di Galilea, tra le case, tra la gente  comune. Una fede che parla e intercetta le istanze  del cuore.

Una fede che si fa storia,  attraversa le generazioni e assume volti concreti di uomini e donne che si lasciano  stupire da Dio. Fino  ai nostri  giorni.

 

Madeleine Delbrél, l'amore nel quotidiano

Madeleine Delbrel  (1904-1964) è una  figura  di donna che con­ tinua  ad attrarre numerose vocazioni,  giovani  donne che, come lei, desiderano non  avere segni distintivi  se non  l'amore con cui stanno nel  quotidiano.

Madeleine poeta,  mistica,  assistente sociale,  profeta...  Donna, donna credente che ha  scelto di lasciarsi  evangelizzare da quell'E­ vangelo che  le bruciava il  cuore.  Nella  propria  conoscenza della realtà,  con  sguardo arguto e  con  un  sorriso  di autoironia che  le consentiva una profonda interiore libertà, sapeva  additare l'apporto specifico della donna alla tenerezza dell'evangelizzazione:

«[...] Non  inganniamoci, gli uomini da soli,  anche  impegnati nel  più  denso  spessore  del mondo, anche intimamente identificati con  i loro  fratelli,  il più  spesso  non saranno capaci  di fornire  al­ tro sulla vita che delle informazioni che assomigliano molto  a degli schemi  o a dei disegni in scala.  Noi "donne", immerse in una  por­ zione  di mondo, se desideriamo che sia ben  conosciuta per essere evangelizzata, senza  teoria  e senza  tattica,  sapremo attirare verso di essa gli occhi  della  Chiesa  e vivificare,  in natura e in grazia, gli

schemi  che  gli uomini avranno fornito e senza  i quali  noi  stesse non  forniremmo che degli abbozzi inde­cifrabili.  [...] La Navicella  della  Chiesa non  ha  finito il suo  viaggio.  Agli uomi­ni il ponte,  lo scafo, gli alberi...,  ma  per le vele, non c'è modo di fare a meno di noi.  Senza  contare che essi hanno sempre voglia  di motori  e che il vento dello Spirito  Santo  non  ha mai saputo servirsene

«Per le vele non  c'è modo di fare a meno di noi. .. »: una saggezza  sapienziale,  tutta  femminile, che sa accondiscendere allo Spirito che soffia dove vuole,  senza  abbandonare la necessità  di schemi  «senza i quali noi stesse non forniremmo che abbozzi indecifrabili>>. Made­leine intuisce  la necessità  di uno sguardo a due occhi- maschile  e fem­minile- perché solo così si può vedere  la profondità dell'esperienza.

E ancora, in uno  scritto  del 1943,  nel  cuore  della guerra e no­nostante i suoi  drammi, aveva  la lucidità  di intuire l'azione dello Spirito.  Così si esprime in Missionari senza battello:

«L'"Eterno Missionario" che è lo Spirito Santo si fa strada in mez­zo a noi [...] e spira nei cuori la speranza di una salvezza universale. Lasciamoci  ammaestrare da lui. Impariamo che  il Signore  viene  in noi  come  su  un  sentiero che  lo  conduce  ad  altri.  Impariamo che ricevere  il Signore  in verità,  significa  trasmetterlo. [...]  Se vi sono dei missionari nella Chiesa, è lei stessa una  Chiesa missionaria e noi siamo  i figli di questa  Chiesa.  Signore,  ciascuno  di noi  è una  delle tue  frontiere. In ciascuno  di noi  deve avvenire la tua  crescita e non altrove. Ciascuno di noi è la sabbia che la tua sorgente deve attraver­sare per andare più lontano; il bosco incendiato che il tuo fuoco deve attraversare per raggiungere un altro  bosco; la finestra  attraverso la quale la tua luce entra nella  casa

Nei volti di queste  donne, come in quello di tanti fratelli e sorelle che incontriamo nella  nostra quotidianità, i tratti  di quell'umane­ simo  sognato per  la nostra Chiesa.  Lo spessore  di una  vita  che  sa sorridere, perché  crede nel  Sorriso di Dio, ne rivela la presenza:

«E poiché i tuoi  occhi si svegliano nei nostri, il tuo  cuore si apre nel nostro cuore, noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi  in noi come  una  rosa espansa, approfondirsi come  un rifugio immenso e dolce per tutte queste  persone, la cui vita palpita  intorno a noi

 

 

 

 

 

 

 

2017

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di Plautilla Brizzolara