UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Film: la ragazza senza nome

Jenny Davin è una giovane dottoressa di base che sta terminando, in un piccolo ambulatorio alla periferia di Liegi, la sostituzione di un suo anziano collega, il dottor Abraham, che si trova in ospedale. La donna, che sta per ottenere l’assunzione in un prestigioso Istituto della città, svolge con grande scrupolo e dedizione il suo lavoro e, nel contempo, segue Julien, uno stagista affidato alle sue cure.
24 Maggio 2018

Rubrica Linguaggi: di Olinto Brugnoli

FILM: LA RAGAZZA SENZA NOME

Titolo originale: La fille inconnue; regia, soggetto, sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne; fotografia: Alain Marcoen; montaggio: Marie-Hélène Dozo; interpreti: Adèle Haenel (Jenny Davin), Olivier Bonnaud (Julien), Jérémie Renier (padre di Bryan), Louka Minnella (Bryan), Christelle Comil (madre di Bryan); distribuzione: Bim; durata: 113’; origine: Belgio/Francia, 2016.

La vicenda. Jenny Davin è una giovane dottoressa di base che sta terminando, in un piccolo ambulatorio alla periferia di Liegi, la sostituzione di un suo anziano collega, il dottor Abraham, che si trova in ospedale. La donna, che sta per ottenere l’assunzione in un prestigioso Istituto della città, svolge con grande scrupolo e dedizione il suo lavoro e, nel contempo, segue Julien, uno stagista affidato alle sue cure. Una sera, ben oltre l’orario di chiusura, si sente suonare il campanello. Julien sta per aprire, ma la dottoressa glielo impedisce: è tardi e per di più un solo squillo significa che non si tratta di una cosa urgente. L’indomani due poliziotti, che hanno scoperto nelle vicinanze il cadavere di una prostituta africana, le chiedono di visionare il video della telecamera di sorveglianza. Si scopre così che la vittima era proprio colei che aveva suonato il campanello dell’ambulatorio per sfuggire a qualcuno che la stava inseguendo. Jenny non si dà pace, in preda a sensi di colpa. Decide allora di rinunciare al nuovo impiego e rileva lei l’ambulatorio del suo collega. Si mette poi alla ricerca dell’identità di quella povera donna per darle almeno un nome e una sepoltura, per tentare di ridarle quella dignità che le era stata tolta. Dovrà affrontare non pochi ostacoli e pericoli, in un mondo dove sembrano regnare l’indifferenza, la paura e l’ostilità. Ma alla fine la sua tenacia e la sua determinazione avranno la meglio, facendo affiorare il senso di responsabilità e facendo emergere la verità tutta intera. Solo così potrà ritrovare la pace dell’anima e continuare a prendersi cura dei suoi pazienti, soprattutto dei più deboli e bisognosi.

Il racconto.

Introduzione. Jenny si trova nell’ambulatorio del dottor Abraham e ausculta un paziente affetto da enfisema polmonare e da bronchite. Lo fa auscultare anche da Julien di cui convalida la diagnosi. Improvvisamente un paziente, un ragazzo di nome Elias, ha una crisi di tipo epilettico. Jenny accorre in suo aiuto e invita Julien ad andare a prendere un cuscino. Ma questi resta come paralizzato di fronte a quel ragazzo che si contorce per terra. Più tardi Jenny lo rimprovera: «Devi imparare soltanto una cosa durante lo stage: imparare a fare una buona diagnosi. Se ti lasci coinvolgere dalla sofferenza del paziente fai una cattiva diagnosi. Di fronte allo stagista che obietta: «Te l’ho detto, è più forte di me», Jenny ribatte: «Se vuoi fare il medico devi essere più forte delle tue emozioni». Poco dopo si sente suonare il campanello. Julien sta per andare ad aprire, ma Jenny glielo impedisce: «Non aprire. Siamo già chiusi da un’ora». Per di più, osserva la dottoressa: «Se fosse stata un’emergenza avrebbe suonato una seconda volta». Julien è turbato e se ne va senza salutare.

Prima parte: la scoperta. Jenny si trova presso l’Istituto Kennedy, un importante studio medico del centro, dove viene accolta e festeggiata da tutta l’equipe dei medici. Si capisce che la donna è stimata dai colleghi che le hanno già preparato lo studio con il suo nome.

In attesa di trasferirsi, Jenny continua a prodigarsi per i suoi pazienti, dimostrando attenzione e disponibilità. Inaspettatamente riceve la visita di due poliziotti che le chiedono di visionare la telecamera di sorveglianza perché nei paraggi è stato ritrovato il cadavere di una ragazza africana. Poi, resasi conto di essere stata un po’ dura con Julien, gli lascia un messaggio in segreteria: «Scusami per ieri sera». Visita Sabine (la madre di Bryan, di cui si parlerà più avanti) che ha problemi di alcol e di droga; si prende cura di un uomo di colore ferito ad una gamba e lo invita ad andare in ospedale. Infine, avvisata per telefono, si reca dalla polizia e scopre che la ragazza morta era proprio quella che aveva suonato al suo citofono per chiedere aiuto. Non se ne conosce l’identità perché non aveva con sé né documenti né telefono. Jenny resta profondamente turbata; spiega come sono avvenute le cose e viene rassicurata dalla polizia: «Non poteva saperlo; non aprire un’ora dopo la chiusura è normale». Jenny guarda quelle immagini e si commuove. Dice di non averla mai vista (forse era una paziente del dottor Abraham, che lei sostituisce da tre mesi). Poi se ne va, pensierosa. Ma quella foto del volto della ragazza, che resta impressa nel suo cellulare, diventa fin d’ora un elemento strutturale di grande importanza, strumento di una ricerca irrinunciabile per dare un nome a quel volto, per scoprire l’identità di una ragazza che possiede la dignità di ogni persona umana.

Parte seconda: il senso di colpa. La prima cosa che Jenny fa è quella di recarsi nel cantiere dove è stato trovato il cadavere. Chiede informazioni: vuole vedere proprio il punto preciso del ritrovamento. Poi va da Julien, gli mostra la foto, sente il bisogno di confessare: «Ho provato quello che hai provato tu, quando ha suonato. Anch’io volevo aprire, e poi non so cosa mi è preso. Ti ho detto di non aprire solo perché tu volevi aprire, soltanto per impormi». Di fronte al ragazzo, che vuole tornare al suo paese e lasciare la medicina, Jenny reagisce: «Julien, potresti essere un ottimo medico». Poi si reca dal dottor Abraham: anche a lui mostra la foto. Il dottore dice di non riconoscerla, ma potrebbe far parte di quelle famiglie africane che sono in cura presso di lui. Jenny telefona all’ispettore di polizia per dirgli che il dottore è disponibile a fornire gli indirizzi di quelle famiglie. Poi si informa e viene a sapere che la ragazza ha tentato di difendersi: lo dimostrano le ecchimosi sui polsi, forse provocate dal suo aggressore nel tentativo di afferrarla. Jenny chiede di essere avvertita prima della sepoltura: «Non riesco ad accettare che la seppelliscano senza sapere il nome. Nessuno saprà che è lei quella sotto terra. Se le avessi aperto la porta sarebbe viva come me». E qui avviene una cosa molto importante: il senso di colpa che Jenny inevitabilmente prova non resta sterile, fonte di chiusura, ma si traduce in una decisione radicale e sorprendente. Jenny decide di prelevare lei l’ambulatorio del dottor Abraham. Da notare che l’ambulatorio si trova sulla tangenziale. Ciò significa rinunciare alle ambizioni, alla carriera, allo studio in centro, e rimanere in periferia al servizio dei più poveri, degli emarginati. Una scelta che i suoi colleghi fanno fatica a capire, ma che la protagonista mette in atto con grande determinazione, frutto di una forza d’animo e di una sensibilità fuori del comune.

Terza parte: le ricerche. Mentre si prende cura dei suoi pazienti, Jenny ne approfitta per mostrare in giro la foto della vittima e per chiedere informazioni. La mostra anche a Sabine e a suo figlio Bryan, un ragazzo che ha problemi di stomaco. Questi dice di non averla mai vista, ma Jenny s’accorge che il ragazzo sta mentendo. Dopo aver telefonato all’ispettore per sapere se la diffusione delle foto ha dato qualche risultato ed aver appreso con rammarico che la ragazza era già stata sepolta, Jenny torna da Bryan, approfittando del fatto che il ragazzo è a casa da solo. Lo interroga senza spaventarlo: «Con me puoi parlare. Sono il tuo medico, non dirò niente a nessuno. C’è il segreto professionale». Poi cerca di far leva sulla sua sensibilità: «Immagina che sia tua madre; la seppelliscono e tu non lo sai; tutta la vita aspetti che torni». Ma il ragazzo non ha il coraggio di parlare.

Quarta parte: il coinvolgimento. Jenny si lascia sempre più coinvolgere in quella che sembra essere diventata la sua missione, incurante delle difficoltà e dei rischi cui può andare incontro. Per prima cosa si trasferisce nell’ambulatorio. La cosa è particolarmente importante dal punto di vista tematico, perché significa la piena assunzione di un compito, l’immergersi fino in fondo, il farsi carico senza riserve. Per di più i rumori delle automobili che scorrono sulla tangenziale (e che si continuano a sentire anche mentre scorrono i titoli di coda) diventano elemento emblematico, come succede spesso nei film dei Dardenne, di un mondo moderno sempre più caotico e tecnologico e sempre meno sensibile nei confronti delle persone. Il coinvolgimento di Jenny arriva fino al punto di comperare un posto al cimitero (vicino ad un albero) per farvi seppellire la ragazza, alla quale porta un grosso mazzo di fiori.

Un giorno si presenta da lei Bryan accompagnato da un suo professore. Il ragazzo si è sentito male a scuola e ha chiesto di essere visitato dalla dottoressa. Ma Jenny ha capito: «Se hai chiesto al tuo insegnante di farti visitare qui, vuol dire che hai qualcosa da dirmi». Il ragazzo è stressato, vomita, e poi, rassicurato da Jenny che gli promette di non dirlo a nessuno, ammette di aver visto, lui e un suo amico, la ragazza, che faceva la prostituta, in compagnia di un vecchio all’interno di un camper.

Jenny scopre dov’è il camper e, fingendosi interessata all’acquisto, indaga. Questa parte del film è più narrativa che tematica, anche se continua a mettere in risalto la determinazione della donna. Jenny viene a sapere che il proprietario del camper qualche volta portava una prostituta al suo vecchio padre nel camper e che queste prostitute venivano contattate in un internet point. La donna viene minacciata, ma intanto è riuscita ad avere qualche indicazione che le può essere utile. Con grande coraggio si reca ad un internet point con la speranza di ottenere maggiori informazioni. Ancora una volta mostra la foto alla cassiera, che dice di non averla mai vista, e poi ad un paio di uomini dall’aria piuttosto sospetta. Il giorno dopo, di buon’ora, viene svegliata dal padre di Bryan. L’uomo corregge quanto detto dal figlio: «Non le ha proprio detto la verità. In realtà era solo. Si è inventato l’amico perché si vergognava. Voleva giustificare il suo comportamento coinvolgendo qualcun altro». Jenny vorrebbe far vedere anche a lui la foto della ragazza, ma l’uomo dice di averla già vista sul giornale.

Jenny sente poi il bisogno di andare a trovare Julien al suo paese per incoraggiarlo a riprendere gli studi di medicina. Il ragazzo le racconta della sua infanzia, di quando suo padre lo picchiava senza pietà, e di aver scelto medicina per curare gli altri o curare se stesso. Poi ammette di non essere in grado di proseguire gli studi: «Hai fatto bene a sgridarmi. Non sono in grado di fare il medico, non voglio più farlo. Mi costringe a pensare a mio padre. Sono stufo, stufo di averlo sempre in testa». Ma in seguito, grazie alle suadenti parole di Jenny, Julien cambierà idea e riprenderà gli studi. È un’altra dimostrazione dell’attenzione e della preoccupazione di Jenny nei confronti degli altri.

Jenny incontra casualmente Bryan e il suo amico e li rincorre, ma inutilmente. Dovrà poi vedersela coi genitori del ragazzo che, evidentemente, hanno qualcosa da nascondere. Questi l’ammoniscono a lasciare in pace il loro figlio e le comunicano di voler cambiare medico.

Anche la polizia se la prende con lei: «Siamo noi gli inquirenti, non lei». La rimproverano di essere stata nell’internet point e di aver mostrato la foto a quei due tizi: «C’è un importante traffico di stupefacenti: quelle persone ci servono e la sua invadenza le ha rese meno collaborative». Poi le dicono di avere forse scoperto il nome di quella ragazza, nel caso avesse ancora l’intenzione di farle costruire una tomba. Il suo nome sarebbe Serena Ndong.

Quinta parte: la confessione e l’assunzione di responsabilità. Un giorno Jenny, mentre sta per entrare in ambulatorio, si trova alle spalle il padre di Bryan. Subito prende paura. Ma la sua ostinazione sta ora per produrre i frutti: l’uomo è venuto a confessare. Le racconta di avere visto la ragazza sulla tangenziale e di aver subito capito che era una prostituta. L’aveva seguita ed era stato visto da Bryan e dal suo amico. Poi aveva tentato di portarla con sé, ma la ragazza aveva rifiutato e si era messa a correre: «Quando ha suonato da lei l’ho persa di vista». Poi l’aveva di nuovo raggiunta e le aveva offerto dei soldi. Lei subito aveva accettato, ma poi, di fronte a certe “richieste” dell’uomo era di nuovo fuggita: «È corsa via per sfuggirmi, verso la Mosa. L’ho inseguita. Correva in mezzo al cantiere. Ha inciampato su non so cosa ed è caduta sull’argine». Jenny gli domanda se quando l’aveva vista cadere era sceso per vedere come stava. L’uomo dice di no: «Ho pensato che fosse svenuta, che si sarebbe svegliata». Ma la dottoressa gli fa presente che secondo l’autopsia la ragazza non è morta a causa del colpo, ma perché aveva perso molto sangue. L’uomo reagisce con rabbia: «L’avrei lasciata morire? È così?» Si scaglia contro di lei, violentemente, ma poi si lascia andare e confessa pienamente: «Non dormo più a causa di quella ragazza. L’ho sempre in testa. Se lei avesse aperto la porta non sarebbe successo». Jenny ammette: «Anch’io ce l’ho sempre in testa». Ma resta ancora un passo da fare. Di fronte alla richiesta dell’uomo di parlare con Bryan, Jenny dice: «Non dirò niente a nessuno. È alla polizia che deve dire la verità». Ma l’uomo non è pronto: «No, non posso. Non posso farlo. Lo sapranno tutti, perderò il mio lavoro. Andrò in prigione. Perderò tutto. Perché rovinarmi la vita?» Jenny risponde: «Perché lei ce lo chiede». L’uomo osserva che lei se ne frega, perché è morta. Ma Jenny non demorde: «Se lo fosse non l’avremmo sempre in testa».

L’uomo chiede di andare in bagno. E qui tenta di suicidarsi impiccandosi con la cintura dei pantaloni, senza riuscirvi. Poi chiede alla dottoressa di chiamare la polizia. Jenny gli dice: «Deve farlo lei». Poi gli presta il telefono e l’uomo, finalmente, con grande sofferenza, si assume la propria responsabilità e telefona alla polizia.

Sesta parte: la verità tutta intera e la pietà. Mentre Jenny sta visitando un bambino piccolo, entra in studio quella ragazza dell’internet point cui la dottoressa aveva mostrato la foto alcuni giorni prima. Con commozione si rivolge a Jenny: «Prima di andare dalla polizia volevo vederla per ringraziarla di essere venuta all’internet point. E di avermi mostrato la foto. La foto di mia sorella. Dopo che lei è venuta mi sono vergognata e sono riuscita a decidermi. Non osavo perché avevo paura che il mio ragazzo mi rimettesse sul marciapiede. Le ha procurato il falso passaporto perché la polizia non sapesse che faceva lavorare Felicie: non aveva ancora diciott’anni». «Si chiamava Felicie?», domanda Jenny. «Sì, Felicie Kumba» risponde la ragazza. Jenny le dice che è stata seppellita nel cimitero a Seraing, in attesa che qualcuno della famiglia venisse a reclamarla. La ragazza risponde: «Lo farò io. Mi occuperò di tutto. Le sono molto grata». Sta per andarsene, ma sente il bisogno di andare fino in fondo, di mettere a nudo la propria anima di fronte a quella persona che tanto ha fatto per sua sorella: «Non ho fatto niente per mia sorella. Non l’ho fatto perché ero gelosa di lei. Lei abitava con noi e piaceva molto al mio ragazzo. E quando lei è sparita mi sono sentita meglio». Poi si mette a piangere. Jenny le chiede: «Mi permette di abbracciarla?». Le due donne si abbracciano strettamente, ormai libere dai sensi di colpa, superati grazie alla verità e alla pietà.

Epilogo. Riprende la vita quotidiana. Jenny si prende cura di una vecchia signora che porta la stampella. La aiuta, la sostiene e l’accompagna giù dalle scale. «Posso appoggiarmi?», chiede la signora. «Sì», risponde semplicemente Jenny. Le due donne escono di campo. Jenny continua il suo lavoro, la sua missione, quella di aiutare le persone, di prendersi cura degli altri.

Significazione. Jenny viene fin dall’inizio descritta come una persona sensibile, disponibile, aperta. Indispettita dal comportamento, ritenuto troppo emotivo, di Julien, commette l’errore di non aprire la porta a chi, fuori orario, suona il suo campanello. È una cosa veniale, più che comprensibile, come le dice anche l’ispettore di polizia. Ma, venuta a sapere delle conseguenze del suo gesto, viene assalita da un forte senso di colpa. Decide allora di indagare, anche a costo di correre dei rischi e di affrontare situazioni pericolose, per dare almeno un nome a quel volto, per offrire una sepoltura dignitosa a quella povera ragazza, per tentare di trovare qualcuno che la ricordi e la pianga. Può così trovare la pace interiore e può guardare negli occhi le persone di cui si prende amorevole cura.

Prima di passare all’idea centrale, vale la pena di sottolineare almeno due elementi molto importanti, non solo in questo film, ma in tutta l’opera dei fratelli Dardenne. Si tratta del volto e dello sguardo. Si è già accennato al peso strutturale che possiede quella foto che Jenny mostra in giro. La foto mostra il volto di una persona; ed è proprio il volto, con il suo sguardo, che interpella chi lo vede. Il volto, cui necessariamente corrisponde un nome (ed è questa la ricerca senza posa della protagonista, affinché nessuna tomba resti senza un nome, come purtroppo avviene sempre più spesso nel nostro mondo disumanizzato) rivela a chiunque lo guardi la sua natura di persona umana con la dignità che le appartiene (secondo la visione di Lévinas, che i registi condividono pienamente). Non è un caso, infatti, che quando il padre di Bryan confessa la sua colpa urli alla protagonista: «Non deve guardarmi. Si volti, si volti, la supplico». Non vuole essere guardato perché lo sguardo di Jenny, anche se non intenzionalmente, gli fa prendere coscienza del suo comportamento disumano, che è qualcosa di insopportabile (ed infatti lo porterà, prima assumersi la propria responsabilità, a tentare il suicidio).

Idea centrale. Anche le persone sensibili e umanamente ricche possono commettere degli errori. Il senso di colpa che ne nasce non deve però rimanere sterile, ma tradursi in una ricerca della verità che porta all’assunzione di responsabilità e alla pietà. Solo così ci si può riconciliare con se stessi e con gli altri e continuare a prendersi cura dei più bisognosi e dei più deboli, che hanno la dignità che possiede ogni persona umana.

2017

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di Olinto Brugnoli