UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sindrome di Giona o segno di Giona?

Entrare nella storia di  Giona, come raccontata nel suo breve libretto - 4 capitoli, soli  48 versetti, il più   piccolo della Bibbia ebraica dopo quello di  Abdia è facile e  difficile. Facile per la storia avvincente (si pensi ai colpi di testa del  profeta e di Dio) e pie­na di sorpresa (la tempesta, il pesce […]
13 Giugno 2018

Entrare nella storia di  Giona, come raccontata nel suo breve libretto - 4 capitoli, soli  48 versetti, il più   piccolo della Bibbia ebraica dopo quello di  Abdia è facile e  difficile. Facile per la storia avvincente (si pensi ai colpi di testa del  profeta e di Dio) e pie­na di sorpresa (la tempesta, il pesce che mangia Giona, il ricino che si secca), un romanzo didattico, un racconto parabolico, ma è anche difficile quando andiamo a ricostruire gli avvenimenti storici: chi  fu realmente il profeta (cf  2Re 14,25, ove viene detto figlio di Amittai); forse era un profeta di  corte (cf  IRe 22,5-12); cosa profetizzò (ad es.  l'estensione del  regno di  Israele ad   opera di  Geroboamo); che Ninive era la  capitale degli Assiri, arricchita  di monumenti da  Sen­nacherib, vissuto tra il 704-681 a.C., ed  Assurbanipal, vissuto tra il 668-626 a.C., distrutta ad  opera dei  Medi e  dei  Babilonesi nel 612 a.C., senza lasciare tracce rilevanti, non ritrovata da  Senofonte, ap­ pena due secoli più  tardi (cf  Anabasis., III,  4, l 0-12 ), rimessa in luce dall'archeologia nelle sue  principali costruzioni  (ad  es. il  palazzo reale, i templi con tutta la  raffinatezza dei  bassorilievi).

Non possiamo seguire il filo  delle ricostruzioni storiche  (infatti per la  maggior parte degli studiosi pare che il  testo sia  stato scrit­to in un periodo tra il 400 e  il  350 a.C., quindi già  dopo il ritorno dall'esilio del  popolo di Israele, quando Ninive non era più  così importante, non solo per la  complessità delle ipotesi, ma soprattutto perché il  libro sin dall'inizio ci mostra il suo stile, imposta un patto narrativo con il lettore di ieri  e di oggi, che è invitato a comprendere a partire dal  contesto con l'archeologia del  sapere, per lasciarsi con­durre dalla narrazione, per essere chiamato a rileggere la  propria vita alla  luce di questa parabola che definirei anti-vocazionale (ad  un primo livello) e,  proprio per questo, per tutti noi particolarmente provocatoria, per chi  è chiamato a diventare missione.

Pur inserito nella serie dei  profeti, il personaggio è una figura ti­po  o segno di quello che  gli uomini pensano o finiscono per essere, che parla più  per quello che è che per quello che dice. Lasciamoci dunque guidare dalla vicenda narrata con i suoi pas­saggi scorrevoli, gustosi, ironici e  infarciti di  situazioni paradossali che strappano un sorriso a volte anche amaro.

  1. Primo momento

Giona chiamato, profeta in fuga  (Gio  l, l-16):

«Fu rivolta a Giona, figlio di  Arnittai, questa parola del  Signore: "Alzati, va' a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la  loro malvagità è salita fino a me". Giona invece si  mise in cammino per fuggire a  Tarsis, lontano dal  Signore>>.

Il libro comincia con una chiamata.

Alla  lettera:  «Allora fu  la  parola del   Signore... >>,   in continuità con il  profeta precedente, Abdia, in una  catena vocazionale non interrotta, ma sequenziale. Le  ultime parole del   libro precedente dicevano: «E  così  di  YHWH sarà il regno!» (Abd 21). Ora, proprio perché Dio è re,  manda il profeta anche dai  pagani.

Ma chi  era il profeta?

Non pensiamo a lui solo come ad  un "postino". Il  nome Jonah tra  l'altro significa "colomba", anche qui un simbolo di  mobilità, in quanto facile alla  fuga (cf Ez7,16), ma anche un animale incline alla­ mento e al gemito (cfis 38,14; 59,11), simbolo di Israele (cf  Os 7,16).

La  chiamata è come un evento, un accadimento che investe la sua vita. Questa è la chiamata non a svolgere delle  funzioni, ma ad essere una  missione.  Così  è accaduto in precedenza anche per gli  altri uo­mini prima di lui: essi  trattano con Dio  (Ger  1,6; Es 3,11; 4,10) o si ribellano (cf  Ger 20,9) oppure si chiudono in un mutismo resistente (cf Ez  2,6.8), perché la  persona investita resta libera, resa capace di rispondere o meno.

Qual è la missione affidata a Giona?

Due imperativi: «Alzati e va' a Ninive», definita "la  grande città" o la "città capitale" come più   volte è  detto nel resto del   racconto (3,2.3; 4, l l). Ma per fare cosa? «Grida...>>   e viene spiegata la ragione di tale grido introdotta dal­la preposizione: « ... poiché la loro malvagità è salita alla mia presen­za». Dio  dunque chiama Giona al  cambiamento.

«Giona si  alzò»  (Gio  l,3a) ... ci aspetteremmo: « ... ed  andò» e invece troviamo con sorpresa una  reazione del   tutto inaspettata: « ... per sfuggire lontano dalla presenza di  Dio»   (un'espressione che serve a dire, come già  per Caino in (Gen 4,16) l'allontanamento dalla terra di Israele.

Perché Giona fugge?

Il racconto non lo dice. Giona sfugge alla sua vocazione e  missione, rinuncia alla responsabilità di stare alla presenza di Dio. Sarà il racconto a spiegarcelo. E  scende - non  comprendiamo  da dove, forse dalla Samaria - prima a Giaffa, città dei  racconti di Perseo e Andromeda, poi  scende nella nave, che  ha per meta Tarsis, «lontano  dalla presenza del  Si­gnore» (Giov. 1,4).

Tarsis resta un luogo misterioso. Nell'Antico Testamento il ter­mine è  legato all'espressione «navi di  Tarsis» generalmente tra­dotta come « navi di lungo corso», proprio perché in grado di an­dare a  Tarsis, località imprecisata ma lontana  (cf  2Cr 20,36-37), ma anche in altri passi dell'Antico Testamento le  navi  di Tarsis (cf  Is 23, l) gridano per la  distruzione di Tiro e,  nello stesso libro (2,16), sono ricordate tra le entità su cui  si abbatte la collera divina nel cosiddetto "giorno di  Yhwh" insieme ai  cedri del   Libano, alle querce di Basane ai monti; nel Salmo 48, al v. 8,  si racconta come queste particolari "navi" vengano squarciate dal vento orientale inviato da Dio. Tarsis rappresenta  l'estremo  occidentale opposto  lontano  dalla presenza del  Si­gnore» (Gio 1,4).

Tarsis resta un luogo misterioso. Nell'Antico Testamento il ter­mine è  legato all'espressione «navi di  Tarsis» generalmente  tradotta come « navi di lungo corso», proprio perché in grado di an­dare a  Tarsis, località imprecisata ma lontana  (cf  2Cr   20,36-37), ma anche in altri passi dell'Antico Testamento le  navi  di Tarsis (cf  Is 23, l) gridano per la  distruzione di Tiro e,  nello stesso libro (2,16), sono ricordate tra le entità su cui  si abbatte la collera divina nel cosiddetto "giorno di  Yhwh" insieme ai  cedri del   Libano, alle querce di Basane ai monti; nel Salmo 48, al v. 8,  si racconta come queste particolari "navi" vengano squarciate dal vento orientale  inviato da Dio. Tarsis rappresenta  l'estremo  occidentale opposto  all'orientale Ninive, ubicata probabilmente sulle coste meridionali della Spagna.

Cosa cerca Giona?

Cerca solo tranquillità  e  sicurezza, in una sola parola "quieto vivere"; vuole sfuggire a  un Dio  esigente e  imprevedibile. Infatti a Tarsis non si conosce Yhwh (Is  66, 19) ed  è  un centro fiorente dal punto di vista commerciale (vi si lavora l'argento: cf Ger l O, 9). Vi si reca dunque - forse - con la  prospettiva di  un potenziale successo economico.

Ma per dire la  fuga si usano i termini della discesa. Una conno­tazione particolare ha il reiterato uso del  verbo scendere, che carat­terizza il  componimento fin dal   primo capitolo: nel solo v.  3  esso viene utilizzato due volte, per indicare prima il viaggio verso  Giaffa e poi  il suo imbarco per Tarsis. Se  nel primo caso l'espressione può considerarsi normale, nel secondo è decisamente anomala, perché anche in ebraico, come in italiano, si usa l'espressione "salire su una nave" piuttosto che "scendere"... Il verbo ricorre ancora al v. 5, per un totale di tre volte in soli 5 versetti. Difficilmente tanta insistenza può essere casuale, specialmente all'inizio di  un libro biblico. I movimenti di  Giona, apparentemente comuni, sono descritti nei termini di  una vera e propria  catabasi 3. 

Scendere o fuggire dalla presenza di  Dio vuol dire volgere le  spalle a Dio,   con una configurazione plastica ostinata, che va ol­tre le resistenze dei  profeti del  passato, che comunque restavano davanti a Dio. Dio   chiama Giona, Giona rifugge dalla chiamata.  Il  racconto è segnato da  una grande ironia. Giona, israelita, rappresentante  del   popolo di  Dio,   sprofonda sempre più  in basso.

  1. l Sottolineature vocazionali

La Parola di Dio  investe ciascuno di noi e ci costituisce vocazional­mente. Possiamo accoglierla o rifiutarla, possiamo resistere o sfuggi­re,  possiamo metterei alla  presenza di Dio  o fuggire da essa, possia­mo lasciare che la nostra vita sia  sconvolta da questa parola oppure possiamo restare chiusi in noi stessi e nei nostri progetti, nei nostri recinti pregiudiziali.

La domanda che si pone a tutti noi è evidente: stiamo veramente ascoltando la  voce di Dio  che ci chiama ad  andare oppure viviamo rinchiusi in una grande bolla fatta di  presunte sicurezze e comodi­tà? Siamo disponibili ad oltrepassare i confini di modi di  pensare e di  vivere che impediscono di  partire? Siamo aperti a  percorsi che conducano all'incontro con gli  altri e a viaggi interiori (i più  diffici­li),  affrontando nuove sfide e interrogativi del  nostro tempo?

Anche a  noi è rivolta la  domanda che vorremmo indirizzare al profeta: Giona perché fuggi dalla presenza del  Signore?

  1. Secondo momento

Giona inghiottito, ribelle in preghiera  (2, l-ll):

«Subito Yhwh gettò un forte vento sul   mare. Così  venne una grande tempesta sul mare e subito la nave pensò di sfasciarsi. .. Al­lora i marinai. ..>>   (Gio 1,4).

Giona è  in mezzo al mare con i marinai e veleggia verso la  fine del  mondo, ma a  questo punto Dio  interviene, prendendo l'inizia­tiva: un vento impetuoso e una tempesta furiosa. La fuga di  Giona sembra contrassegnata da  una rincorsa da parte del  Signore.

A lui sembra di allontanarsi, ma Dio in realtà è sempre lì (cf Am 9,2-4). Le reazioni alla tempesta sono del  tutto opposte.

I  marinai hanno  paura - Giona invece scende nella parte in­ terna della nave. I marinai invocano il loro Dio- Giona si  corica; i marinai gettano cose dalla nave per alleggerirne il peso - Giona si addormenta.

Giona si ritrova contro i marinai. Egli  fugge dai  pagani di Ninive e si ritrova tra i pagani della nave. Egli  non obbedisce al  suo Dio,  a differenza dei  marinai che hanno paura e gridano ciascuno al proprio Dio. I marinai tremano dalla paura, presi dal  panico, espresso dal  fatto che «coloro che di solito lavorano solo in piena solidarietà, ora diventano individui isolati, ciascuno grida al suo Dio ma dor­me (il termine usato è tardema) come un ghiro: è un letargo più  che un sonno; cf  il sonno di  Adamo  (Gen 2,21), di  Abramo  (Gen 15), di  Sìsara (Gdc 4,21), di  Elia  (IRe 19,5). Il sonno può essere il luogo del  sogno (Gb 33,14-17), ma anche il luogo della incoscienza, della irresponsabilità ( Gdc  4,21),  uno stadio prossimo alla morte.  Giona scende sempre più  in basso, in senso fisico e religioso. Mediante il sonno, egli  anestetizza la paura.

Giona viene interpellato allora dal  capitano della nave. Egli,  un pagano, ribadisce -sia pure inconsapevolmente -la vocazione e  la missione di Giona: «Àlzati, proclama!>>, quasi un'eco della chiamata di  Dio. Il  chiamato spesso sente che la voce di  Dio  risuona anche attraverso le voci di tanti, addirittura di coloro che quella voce non conoscono.

I  marinai e  Giona vedono nella tempesta la  mano di  Dio,   ma Giona vuole ignorarla, mentre  i  pagani vogliono placarla, perché intuiscono una relazione, magari opposta alla loro, tra il castigo di­ vino e i peccati commessi da Giona, visto che la sorte cade su  di lui. Una visione superstiziosa ma relazionale rispetto a quella negata dal profeta in fuga. Essi  gli  dicono: «Che cosa hai fatto? Perché ci tro­viamo in questa situazione disperata?). Giona, quasi costretto dall'evidenza  dei  fatti, lui   che, investito dalla parola (di  Dio)   è  in fuga da essa, ora parla (v.  9)   e  fa  una confessione perfetta dal  punto di vista formale, quanto ironica agli occhi del  lettore, che la  riconosce contraria alle sue scelte concrete. «<o sono un ebreo e temo il Signore, Dio del  cielo, che ha fatto il mare e la  terra!) (l, 9) . E di fronte alle domande ulteriori («Che hai fatto?), (v. 10);  «Che cosa dobbiamo farti?))), Giona confessa esplicitamente  la  propria colpa e suggerisce la soluzione (v. 12) .

I marinai pregano (non vorrebbero fare del  male a Giona),  poi lo  prendono e  lo gettano in mare. L'effetto positivo è immediato, siamo alla svolta della vicenda. Per i marinai è finita, ma Giona, che fine ha fatto? Dio  manda un grosso pesce ( Gio 2, l) e  Giona resta in esso tre giorni e tre notti. Gli studiosi si interrogano: Perché questo preciso spazio temporale?. La  spiegazione viene cercata nei paralleli con la storia di Inanna nel testo sumerico della discesa agli inferi, come tempo di soggiorno permesso nell'oltretomba (5) .

Giona, in questo momento della sua vicenda, si  trova di  fronte all'ennesimo paradosso: quella morte che ha cercato, per non cor­rispondere alla Parola di  Dio,  ora la  sta  quasi sperimentando. Egli comprende che  Dio  non vuole la  morte, ma la  vita; non vuole  la morte sua, né quella dei  Niniviti.  Qui nel constatare che Dio  ha cura  di  lui,   anche quando egli  non  ha cura  di  Dio,  ha la prova di  trovarsi di  fronte ad  un Dio   diverso da  quello che aveva immaginato, eppure questo atto di mise­ricordia riesce a  leggerlo solo come atto di forza. Per lui Dio  lo  fa  per  mostrare  i muscoli, non per mostrare il cuore.

L'apparente morte a se  stesso, ai suoi progetti, diventa incon­tro con la  sua realtà... la  sua fragilità creaturale. Da  lì, solo da lì si  riparte per ritrovarsi nella relazione con Dio.  Dal  cuore dell' a­bbisso (l'immagine primordiale delle origini: cf  Gen 1,2) il rapporto interrotto  con il Dio   che gli  aveva rivolto la parola, proprio nel momento dello sconcerto, del  fallimento che viene percepito come uno stare sulla soglia della morte, si  fa  invocazione,  qui sgorga il canto, come nelle migliori tradizioni bibliche, nei momenti  della maggiore tensione, i narratori sospendono la vicenda per dare spa­zio  all'io lirico (che sia  di composizione originale o inserimento di canto preesistente poco importa 6 ): così  il popolo salvato dalle ac­que esplode nel canto di Miriam (Es  15, l-18), così  Davide di fronte alla morte di  Gionata  (2 Sam 1,18-27) . Nella poesia, come quella che stiamo ascoltando dalla voce dei  Giona di  oggi, emerge tutto il suo mondo interiore.

La preghiera del profeta inizia come supplica accorata  (v.  3)  e termina  come azione di grazie (v. 10), si va dalla domanda al rin­graziamento, ma quali sono i punti centrali?

-  Dio  permette la lontananza: «Mi hai rigettato dalla tua presen­za  Il  passivo divino potrebbe far pensare che sia Dio a respin­gere Giona. In realtà - tenuto  conto della mentalità semitica che attribuisce a Dio ogni evento, eccetto il peccato -bisogna intendere   che è Giona ad allontanarsi dal Signore e niente affatto il  Signore  a respingerlo da sé. Ma questo modo di  esprimersi la dice lunga sui sentimenti del profeta.

-  Dio salva  (al  v. 10a): La  salvezza viene  dal Signore: l'uomo lasciato nel male, nel peccato, nella morte, motivo per cui   «esiste una speranza anche per i messaggeri di Dio più incapaci e ostinati .

-Non vi è altri che il Dio di Israele,  che sigla le vicende con la stessa firma, quella della liberazione.

Certo è  un passo in avanti: prima aveva parlato di Dio, ora co­mincia a parlargli, ma con parole d'altri. Non ci meraviglia se molti studiosi pensano questo testo come ripreso dalla tradizione  (di  qui la  ricca tramatura  salmica   e  col­locato qui dall'autore  all'interno  della narrazione, a conferma del ripensamento di  Giona, tutto anch'esso riconducibile alla mentalità giudaica post-esilica ("tutto viene da Dio, tutto fa il salvatore"), non possiamo sottrarci alla sua volontà. Un modo di  pensare che nasce quasi da una visione direi fatalista della vocazione e della fede. L'o­rizzonte di Giona, perso nel cuore della terra e sballottato dal mare e dalla tempesta, resta ristretto.

Per lui, come per un certo tipo di giudaismo (e  anche di  cristia­nesimo), con cui l'autore  entra in conflitto, tutto si  riduce ad un rapporto bilaterale (IO-TU). Egli non prende in considerazione né i  pagani marinai, né i Niniviti: esiste solo Lui e Dio, in una sorta di ossessiva relazione di riconoscimento reciproco. L'unica volta in cui parla di altri uomini è per criticare gli  uomini idolatri ( Gio 2,9). Giona  dunque, come dice l'ultimo versetto del  Salmo (2, 10) riconosce in Dio  la salvezza (v. 10b).

Ma la salvezza di chi? Per Giona la salvezza è quella "sua" o al massimo del  "suo" po­polo. Verrebbe da  dire, allora, che Giona non  è salvato per la  sua preghiera, ma nonostante la sua preghiera. Gli studiosi del  profondo (E. Aeppli) hanno detto che «chi deve attraversare una profonda trasformazione interiore, così  come ac­ cadde al  leggendario profeta Giona, viene per un po' di tempo in­ghiottito dal suo inconscio, da un grosso pesce che ha una gola simi­le a quella della balena. Una volta trasformatosi, verrà gettato sulle chiare rive di  una nuova coscienza

Ma non esageriamo... forse Giona ha solo capito chi  è il più for­te,  chi  comanda, a chi  deve sottomettersi. Non è ancora veramente cambiato, ha fatto buon viso a cattivo gioco. Quasi per interesse si sottomette al suo Dio  e  decide di  riprendere i rapporti con lui. Ma resta qualche dubbio che sia   convertito alla sua missione? Vuole fare il profeta o vuole essere profeta?

Noi  non lo  abbiamo capito ancora, ma Dio si  serve del  grosso cetaceo che lo aveva inghiottito per vomitarlo al punto di partenza.

Il pesce che in qualche modo, contro natura, resiste alla  sua vo­racità, non a caso è qualificato come "grande", ma anche contrasse­gnato da tratti femminili (ad  es. le viscere) ossia il luogo in cui  viene formato l'uomo, cosicché diventa da maschile femminile, sinonimo di  grembo materno, mostrando in tal  modo la  tenerezza di  Dio e fungendo da incubatrice, da ventre  per l'inizio (solo l'inizio) della rinascita mentale e spirituale di Giona.

2.1 Sottolineature vocazionali

La  misericordia di  Dio   predispone le esperienze e  gli  incontri per i passi del  cammino di  discernimento vocazionale. L' esperien­za della creaturalità, della percezione della propria finitudine è es­senziale. Giona nella miseria, nel cuore dell'abisso, si connette con questa dimensione, uscendo dalla sua autoreferenzialità per rivol­gersi  a Dio che lo chiama ma naturalmente non si capisce sino a che punto egli  ne sia  consapevole. Non ci è  dato di  capire (ecco la   suspense immessa dal  narratore) se questa debolezza l'abbia assun­ta, in tal  caso sarebbe già  pronto per la missione, oppure se  invece  continua ad  accettare il limite in modo strumentale, perché indotto dalle circostanze. Certo, come per il figlio prodigo della parabola di  Gesù, un cammino di cambiamento di  mentalità, di conversione   parte anche dalle circostanze drammatiche occasionali, ma pren­derne atto  potrebbe essere solo una  condizione di  calcolo mera­mente utilitaristico. A  volte anche tra i  chiamati e  i  chiamanti la scelta vocazionale viene vista come un investimento di  comodo,  non come  una missione.                                                               Cos'altro potrei fare nella vita? Con la  mente Dio   ci appare  più grande ma con la testa, con i ragionamenti, non con l'adesione  della nostra vita.                                                                                         Il ministero sacerdotale e la scelta consacrata diventano così  una sorta di bene rifugio, in cui  Dio  è quasi il "padrone della ditta" ed io il suo "dipendente", magari a mezzo servizio, solo la  veste e  la parola, senza diritto sul  cuore ...

Le motivazioni sono sempre miste e non finiremo mai di discer­nerle, anche nel cammino della fedeltà successiva al momento ini­ziale delle scelte di vita. Giona ha ritrovato il  suo Dio  o il vero Dio? Ha  ritrovato vera­mente se  stesso? Ha  compreso a quale vocazione Dio  lo chiama? Ha capito che Dio  lo  chiama a  una missione diversa da quella che  lui si aspettava?

Un vero percorso di discernimento vocazionale non sa in antici­po dove Dio  ci porta: egli  allarga i nostri orizzonti e ci fa scoprire il suo vero volto e anche la nostra vera identità solo se  ci sappiamo far condurre dai segni della sua cura materna,  mediati da  infinite mani che si muo­vono dallo stesso grembo... quello della Chiesa. Le  resistenze a  questo cammino ritardano i  passi, ma  Dio,   con paziente opera, continua a farci camminare e cre­scere secondo la sua tabella di marcia.

Il racconto avvincente si  presta per un  esame vocazionale di ciascuno di  noi. Ogni momento  rende possibile una crescita nella consapevolezza vocazionale, un  passaggio ad una nuova soglia di maturazione. Io,  anche punto sono?

  1. Terzo momento

Giona, chiamato per la seconda volta, predicatore di successo (Gio 3, l-l O):

«Fu rivolta la parola del  Signore una seconda volta a Giona: "Al­ zati, va' a Ninive, la  grande città, e  proclama ad  essa il messaggio che io ti dirò"...

Giona si mise in cammino ( ... ) andò a Ninive, secondo la parola del  Signore, e proclamò: "Ancora quaranta giorni e  Ninive sarà di­ strutta...."

I  movimenti del   racconto sono due: da  una parte  Giona che, chiamato di nuovo, diviene esecutore obbediente, dall'altra la pre­dicazione, che mostra un tono duro, violento, anche se  quel termi­ne hafak  (reso con "distruggere" ove andrebbe meglio "capovolge­re" implica una sorta di  possibilità, quasi di rovesciamento, che di fatto poi avverrà.

La  profezia di Giona dunque è vera, ma è falsa circa gli  effetti.

La scena ci viene raccontata dall'esterno e tutto sembra procede­ re  questa volta con una logica di  fedele adempimento, ma nulla ci viene detto di ciò su quello che Giona prova dentro di sé. Lo sentire­ mo dopo la reazione dei  Niniviti. Egli,  da una parte, deve obbedire a Dio,  dall'altra non sembra accettare il contenuto di quell'annuncio, in quanto mette in discussione il  rapporto  preferenziale IO-TU e chiama in causa gli  altri, i  destinatari della missione. In fondo la missione per lui  è contro gli  altri non per gli  altri.

La reazione degli abitanti di Ninive è perciò scioccante per il pro­ feta: essi   «credettero a  Dio   e  proclamarono un digiuno... dal   più piccolo al  più  grande» (Gio 3,5) .

La  risposta all'appello, portato controvoglia, si  trasforma in un successo della predicazione: essi  credono e coralmente rispondono con il digiuno (volto a propiziarsi l'aiuto di Dio: (cf Est 4,16) e il vesti­re di sacco, un esplicito atto di  umiltà. In altre parole si riconoscono come Dio  li vede, accettano i loro limiti e accolgono il volere divino, in modo del  tutto opposto alle resistenze di Giona. Anche il re partecipa personalmente e decreta che uomini e be­stie facciano penitenza (7-8), si augura che  Dio  possa pentirsi (3,9a) e  desistere dal  fare il male, nelle ultime parole esprime anche l'in­vito alla conversione «dalla condotta cattiva e  dalla violenza di  cui (il popolo) ha macchiato le mani!.  Il suo decreto, dai  toni profetici (in quanto esprime un discernimento di fronte al  dabar divino che lo ha provocato dal  basso), è un invito a "tornare indietro" ossia ad abbandonare i modi della violenza che sta all'origine nella Bibbia della tragedia umana (cf  Gen 6,5.11.13). Respingere questa condot­ta è di fatto una sorta di  rigenerazione, come  se la  distruzione fosse una sorta di  causa intrinseca della malvagità violenta dell'uomo 11 . In altri termini la  conversione dei  Niniviti è una sorta di riconosci­mento del  travisamento  della vocazione originaria dell'uomo, che  non è  a opprimere ma  a custodire  l'altro. I Niniviti la  riscoprono e si  convertono. In  altri termini c'è una conversione dell'umano all'umano, quella che risuona nel pensiero di  Papa Francesco, anche con risonanze possibili nel mondo giovanile, e di fronte ad  essa si pone come auspicio la  conversione di  Dio  («Chi sa,  forse, tor­nerà indietro e si  pentirà il Dio e  tornerà indietro dall'ardore della sua ira e noi non periremo», Gio 3,9).

Il  "pentirsi di  Dio" (attraverso un verbo che vuol dire insieme "pentirsi" ed  "avere misericordia" con le  due riprese del  "tornare indietro" si illuminano a vicenda. Dio  non è un buonista, ma colui che si pente perché è misericordioso. Egli non può accettare il male, di  qui la  sua ira, nello stesso tempo non può reagire (con distacco dal   male), non può  dare sfogo alla sua ira   (cf  Mi 7, 18; Sal  6,2s, 78,10).

Lo sfondo narrativo è chiaro, tutti partecipano dell'ascolto e della risposta significativa alla  Parola di Dio: il re e i Niniviti credono che Dio  possa pentirsi e si pentono (anche qui una reticenza dell'autore non ci permette di capirne la  ragione, se  sia  per  paura, per calcolo, una conversione etica e non religiosa). Ciò  che sta a cuore al narratore è sicuramente il contrasto tra la  loro docilità (che indu­ce  il lettore a non essere pessimista sul mondo) e  la  resistenza del profeta, che sembrerebbe fugata ed  invece, come si vedrà, riaffiora.

Centrale è l'affermazione del  narratore: Dio  vide le  loro azioni, che cioè si erano convertiti dalla loro cattiva condotta. Dio  allora si pentì del  male che aveva detto di far  loro e non lo fece (Gio 3, l). L'immagine di Dio  che si pente è sicuramente ardita... In realtà nella Bibbia ritorna più  di  quanto potremmo immaginare (Gen  6,6 di fronte alla malvagità; Es  32, 14,  riguardo alla decisione di  punire il popolo; (Ger 26,13). Si  tratta dunque di un'espressione tipica del linguaggio dei  sentimenti umani, ma che non intacca la  libera e sovrana sua volontà. La  conversione (il  cambiamento di  Dio) resta avvolto nel mistero insondabile della sua intima natura, ma espri­me la sua intenzionalità sull'uomo e sulla storia, la  chiamata alla salvezza, l'amore che precede anche la minaccia e  orienta la  sua sapiente pedagogia vocazionale per tutti gli  uomini, per Israele, per Giona e per noi.

I Niniviti credono in un Dio,  che non conoscono, ma che possa cambiare, un Dio  che in fondo è incline alla compassione; mentre Giona non vi  crede, anzi aborra tale possibilità. La  fuga da Nini­ ve verso Tarsis, il rifiuto della missione è l'espressione di  una non comprensione della vera intenzionalità di Dio, che è la misericordia verso tutti.

Dio   cambia parere, si  pente... e  Giona? Resta il  confronto tra il  profeta, fuggito ed  ora di successo, la  sua storia vocazionale, la sua mancata missione, e  il Dio  di Israele, convertitosi di fronte alla grande città.

 

3.1 Sottolineature vocazionali

Il chiamato, come Giona, non è chiamato una sola volta, ma tan­te volte nella sua vita. René Voillaume nel quadro della vita consa­crata non esita a parlare di  una "seconda chiamata" percepita dopo molti anni di fedeltà al  Signore  (Lettera del  17 marzo 1957, indiriz­zata ai  Piccoli fratelli di Gesù). Nella prima tappa della storia voca­zionale di  ciascuno di noi, colui che desidera sinceramente donare la  propria vita a Dio  non ha ancora l'esperienza «dell'impossibilità umana e naturale... di vivere in armonia con l'ordine soprannaturale dei consigli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2017

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di Emilio Salvatore