UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLE VOCAZIONI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Chiesa e vocazioni: il tempo della profezia, della missione e della speranza

Permettetemi di cominciare con una sorta di parabola. Qualche mese fa  mi sono ritrovato fra le mani un libricino- una vera raffinata perla -sulla filosofia del  viaggio (argomento assai utile per  un pastore!) e con un titolo piuttosto curioso: La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti.  Ne è autore un geografo […]
15 Giugno 2018

Permettetemi di cominciare con una sorta di parabola. Qualche mese fa  mi sono ritrovato fra le mani un libricino- una vera raffinata perla -sulla filosofia del  viaggio (argomento assai utile per  un pastore!) e con un titolo piuttosto curioso: La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti.  Ne è autore un geografo italiano.

Ricordiamo tutti il personaggio del  geografo nel Il Piccolo principe di  Saint-Exupéry. È  un saggio, totalmente sedentario, che rimane in attesa delle testimonianze che gli  portano gli  esploratori per po­ ter disegnare le  carte dei  territori. Sono gli  esploratori che valicano fiumi, montagne, oceani e deserti, e i loro racconti servono a lui  per immaginare il mondo. Lui  è un geografo, non un esploratore. Per questo, quando il piccolo principe gli  chiede alcune informazioni concrete sul  suo pianeta, non sa  dire nulla. Ora, il caso di  Franco Michieli, che è geografo ma anche esploratore, è molto  diverso. I suoi libri sono narrazioni in prima persona e  costituiscono inediti esercizi di cammino e di  riflessione sulle esperienze che egli  stesso ha vissuto.

Il nostro tempo si  caratterizza per una onnipresente tecnologia di  mappatura e  di comunicazione, alla quale noi tutti ricorriamo per i  piccoli e  grandi spostamenti quotidiani. Sembra che, senza, non sappiamo più  vivere, né viaggiare, né pensare. Oggi uno smart­ phone connesso a  internet fornisce informazioni più  dettagliate  di un atlante; con il  GPS   ci  sentiamo  confortevolmente  guidati per territori complessi e sconosciuti; e  dello stesso modo ci  affidiamo completamente agli   itinerari che   ci  vengono proposti da "Google Maps".  Si  direbbe  che il  mondo  abbia smesso di avere necessità di  esploratori! Proprio di  questo parlava Papa France­sco  nell'omelia del  primo gennaio 2017, ricordandoci che «non siamo... terminali recettori di informazione . Cioè, non possiamo diventare sedentari  dal   punto di  vista spirituale  ed esi­stenziale dimenticando  l'esperienza originale, radicata nella profondità, disponibile per il  dono che compromette l'intera vita? Alle  volte sembra che ci  troviamo ad una crescente distanza da  noi stessi e  di  conseguenza anche da Dio  e  dagli altri. Ci affidiamo senza un vero senso critico alle tecno­logie varie e smettiamo di  affidarci ai nostri occhi, al  nostro tatto, al nostro udito. Ci allontaniamo così  dall'esperienza. Diminuiscono le  nostre competenze per il  rapporto, per  la  vita condivisa, per le pratiche collaborative e  comunitarie. Abbandoniamo velocemente la  cultura dell'incontro. E,  come dice Papa Francesco nella stessa omelia, diventiamo  catturati  per la   «orfanezza autoreferenziale, per una pericolosa «orfanezza spirituale», «dal momento che nes­suno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno, ( ...)  facendo perdere la capacità della tenerezza e dello stupore, della pietà e della compassione». Questa sembra la  fatalità del  nostro presente.

La  proposta di  Franco Michieli va salutarmente in senso contra­rio. Per   questo introduce un'espressione che   può suonare strana, ma molto ricca di suggerimenti. Lui  parla della vocazione di perdersi. Con questa espressione ci raccomanda di rinunciare a carte, bussole e GPS  per  consegnarci, disarmati, all'avventura del  cammino, senza altri strumenti di navigazione se  non l'osservazione del  sole e  delle stelle, l'attenzione alla configurazione del  territorio e alle  sue linee, e soprattutto il radicale affidarsi del  viaggiatore al viaggio, lasciando che sia il cammino a rivelarsi e a guidare i suoi passi lungo il percor­so. Si tratta di un elogio della esperienza, di un ritorno alla necessità intramontabile dell'esperienza. Senza di lei  perdiamo di vista la vita nella sua sorprendente  originalità, nella sua capacità di  esprimere la  grande chiamata dell'assoluto.  La vita diventa autoreferenziale,  piccola, piena  di contraffazioni e svuotata di senso e di amo­re. Ma c'è speranza! Nella grammatica degli esploratori, come spiega Michieli, non sono i viaggiatori che  vanno in cerca delle strade, ma le  strade che non cessano di venire, sempre e di nuovo, incontro ai viaggiatori. È l'in­versione del  paradigma culturale dominante. Ed  è,  ci permettiamo di dirlo, la visione evangelica.

Molti, forse, si  domanderanno cosa venga a fare un alpinista in un'assemblea come la nostra. Un  geografo-esploratore che  cosa potrà mai insegnare a un'assemblea di religiosi, formatori e teologi che si occupano del  tema delle vocazioni nella Chiesa? Io penso che una testimonianza del  genere abbia qualcosa da  dirci, in primo luogo, per la sua stessa storia. È un geografo che non rimane chiuso in una scienza astratta. In effetti, la  competenza per interpretare e  orien­tare la  realtà è molto importante, purché la  realtà esista. Michieli è un geografo-esploratore. Ossia non mette tra parentesi l'esperienza, la relazione con il concreto, il contatto con il reale, la profondità del viaggio praticato. Domandiamoci allora se noi (religiosi, formatori e teologi) non sembriamo, in certi momenti, dei  produttori di guide di viaggio per luoghi che non abbiamo visitato.

Ricordiamo l'episodio inaugurale  della vocazione di Mosè nel deserto: «Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suo­cero, sacerdote di  Madian, condusse il  bestiame oltre il  deserto e arrivò al monte di Dio,  l'Oreb. L'angelo del  Signore gli  apparve in una fiamma di fuoco dal  mezzo di un roveto. Egli  guardò ed  ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò:  "Voglio avvicinarmi  a  osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?". Il Signore vide che si  era avvicinato per guardare; Dio  gridò a lui   dal   roveto: "Mosè, Mosè!". Rispose: "Eccomi!") (Es 3, l-4).

Prestiamo attenzione al  verbo  che Mosè utilizza: «Voglio awici­ narmi». Cioè, mi addentrerò il più  possibile, entrerò dentro, come se mi immergessi in ciò  che mi sta  di fronte. Quando si lasciò soddisfa­ re  dalle visioni parziali, distanti e nebulose, quando con tutte le sue forze desiderò una chiara certezza per le domande del  suo cuore, il libro dell'Esodo ci dice che «il  Signore lo vide... e lo chiamò)). Il Signore è  pronto a chiamarci. Addentriamoci. Abbandoniamo una spiritualità vaga, in cui  siamo spettatori dispersi. Cerchiamo Colui che conferma, Colui che dà consistenza al nostro desiderio.

Apprendiamo anche dal  racconto della vocazione del  profeta Sa­ muele: «<l giovane Samuele serviva il  Signore alla presenza di Eli. La  parola del  Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. E  quel giorno avvenne che Eli  stava dormendo al  suo posto, i suoi occhi cominciavano a  indebolirsi e non riusciva più  a vedere. La lampada di  Dio  non era ancora spenta e  Samuele  dor­ miva nel tempio del  Signore, dove si  trovava l'arca di  Dio. Allora il Signore chiamò: "Samuele!" ed  egli  rispose: "Eccomi", poi corse da Eli  e gli   disse: "Mi hai chiamato,  eccomi!". Egli   rispose: "Non ti ho chiamato, torna a dormire!". Tornò e  si  mise a dormire. Ma

il Signore chiamò di nuovo:  "Samuele!"; Samuele si  alzò e  corse da Eli  dicendo: "Mi hai chiamato,  eccomi!". Ma quello rispose di nuovo: "Non ti ho chiamato,  figlio mio, torna a dormire!". In realtà  Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né  gli  era stata ancora rivelata la  parola del Signore. Il  Signore tornò a chiamare: "Samuele!" per la terza volta; questi si  alzò nuovamen­te e corse da Eli  dicendo: "Mi hai chiamato,  eccomi!". Allora Eli  comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli  disse a Samuele: "Vattene a dormire e,  se ti  chiamerà, dirai: 'Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta". Samuele andò a dormire al  suo posto. Ven­ne il Signore, stette accanto a lui e  lo chiamò come le altre volte: Samuele rispose subito: "Parla, perché il tuo  servo ti ascolta.

«La  parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non era­no frequenti. Sembra un sommario realista della nostra esperienza: anche il nostro quotidiano si  fa  rarefatto, frammentario e  assente in relazione alla manifestazione di  Dio. Però, sottolineiamo  la fra­se straordinaria dell'autore sacro: «La  lampada  di Dio non era an­cora spenta . Dio   è fedele alla Persona umana e alla storia. Anche in situazioni ed età agitate da venti e turbolenze, la  nostra fiducia risiede in questo: «La  lampada di  Dio non era ancora spenta}} . Ci dice il testo che Samuele non conosceva ancora il Signore: e noi, lo conosciamo? Samuele si sente chiamato, ma reagisce in modo equivoco credendo che sia Eli che lo sta interpellando.  Finché è aiutato a rivolgersi verso il Signore e ad affermare: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta). Il  Signore non smette mai di comunicare con noi, ma è necessaria una pedagogia spirituale che ci  aiuti a far tornare a Lui i nostri sensi interiori. «Parla Signore, perché il tuo servo ti ascolta: non è questa l'unica via vera e feconda di una pastorale vocazionale per tutta la  Chiesa?

Sottolineo tre affermazioni di Franco Michieli che possono forse dialogare con i tre tempi che costituiscono il titolo di questa con­ferenza: profezia, missione e speranza. Le  rammento velocemente:

*i momenti in cui non si conosce il cammino sono i più inte­ressanti;

*quando ci rapportiamo con l'ignoto, esso si rivela;

*non sono i viaggiatori che trovano le strade, ma il contrario: le strade trovano i viaggiatori.

1.Il tempo della profezia

Guardiamo al  primo tempo, quello della profezia, con l' afferma­zione che gli  corrisponde: «momenti in cui  non si conosce il cam­mino sono i  più   interessanti)). Noi  siamo abituati a considerare la profezia solo da un punto di  vista positivo. È  profetico ciò  che si afferma in un modo nuovo; sono profetici il  germoglio e  il  seme che recano la  promessa di  una  rivitalizzazione; è  profetico ciò  che instaura immediatamente la speranza; è profetico ciò  che  inverte la statistica della diminuzione; è profetico ciò che indica una soluzione al nostro problema. Ma  sappiamo che, a fianco di  una teologia ca­tafatica, esiste la  teologia negativa, o apofatica, quella consapevole che anche il silenzio di  Dio  può essere parola di Dio. «l momenti in cui  non si conosce il cammino sono i più interessanti. Non sarà che questa stagione storica che  stiamo vivendo- in cui  la parola"crisi" è diventata quasi banale per  quanto spesso è ripetuta; in cui  gli  indi­catori nel campo vocazionale sembrano non riuscire a corrispondere al quadro delle necessità; in cui  tanti guardano con timore al futuro perché hanno  capito che la  forma delle diverse realtà religiose ed ecclesiali non potrà più  rimanere con la stessa configurazione; in cui tanti amerebbero una soluzione rapida per tante interrogazioni che emergono, ma non ne vedono la via-, non sarà che questa stagione è  alla fine un kairos, un'occasione anche di  grazia, un tempo che ci sta  parlando profeticamente? È certamente un momento critico, disseminato da tanti spasmi di  dolore, ma non staremo assistendo, senza rendercene conto a un parto?

La  profezia non  può essere ridotta a  un impulso di  soddisfazione  immediata.  La vera profezia è molto spesso segnalata da una carenza, da  una insoddisfazione che diviene principio dinamico, purificatore e proiettivo. La profezia ci chiama ad  ap­profondirla continuamente.

Un esempio clamoroso ce lo dà il profeta Geremia. L'esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e  il profeta Geremia era rinchiuso nel cortile della prigione che era nella casa del  re di  Giuda. E la parola dell'Eterno gli  fu  rivolta in questi termini: «Ecco,  Canameel, figlio di Sallum, tuo zio, viene da te per  dirti: "Comprati  il mio campo che  è ad Anatot, poiché tu hai il diritto di  riscatto per  comprarlo" (Ger   32,7). Il  profeta non riesce a  cogliere il  senso di  questa parola e dell'evento associato. Però, con fiducia, avanza nel senso di  quello che avrà udito di Dio. E nella preghiera spiegherà la  sua perplessità: «Ecco, le  opere d'assedio giungono fino alla città per prenderla; la  città, vinta dalla spada, dalla fame e  dalla peste, è data in mano dei  Caldei che combattono contro di  lei.  Quello che     tu hai detto è avvenuto, ed  ecco, tu lo vedi. Eppure, Signore, DIO,   tu mi hai detto: "Comprati con denaro il campo, e chiama dei  testi­omoni", ma la  città è data in mano dei  Caldei} (Ger  32,24-25). Non è questo tempo di crocevia epocale ed  incertezza, in cui  ci sentiamo  assediati, proprio il tempo per acquistare un campo nova? momenti in cui  non si conosce il cammino sono i più  interessanti.

  1. Il tempo della missione

Nella suggestiva immagine di Franco Michieli si disegna una sor­ta di  processo in tre tappe per parlare dell'esperienza del  viaggio: rischiare la  relazione, abbracciare lo  sconosciuto, lasciare che la  rivelazione avvenga. Credo siano parole chiave anche per pensare la missione. Prima di  tutto viene la  relazione. Non dimentico che la filosofa Simone Weil suggeriva che la  traduzione del  versetto ini­ziale del  prologo di Giovanni- «In principio era il logos)  - dovesse essere: «In principio era la relazione. La missione non è una realtà asratta gestita a distanza o compresa treoricamente.  La  missione, come insegna Gesù, come non cessa di  ricordarci Papa France­sco,   è accettare il rischio della relazione.  E non possiamo restare in attesa di garanzie, o  di  sapere tutto in anticipo. È vero che  si ama solo quel che si conosce. Ma  la nostra conoscenza non può pre­tendere di fissare per  sempre l'altro in una determinata immagine. Amare è anche abbracciare lo sconosciuto, cioè  la possibilità, quello che è ancora aperto, quella irriducibile libertà che rende ciascuno unico e ogni momento della storia un'opportunità  per  la  Grazia. È sintomatico il  fatto che Gesù non fornisca ai  discepoli molte indi­cazioni sulla missione. Si limita a dire loro: «Andate... Non portate borsa, né sacca, né sandali... In qualunque casa entriate, prima dite: "Pace a  questa casa!"... Restate in quella casa, mangiando e beven­do di quello che hanno... Non passate da una casa all'altra. Quando entrerete in una città e  vi accoglieranno, mangiate  quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e  dite loro: "È vicino a voi  il regno di  Dio"  (Le  l 0,3-9).

I discepoli non portano né borsa né bisaccia: non vivono né della loro autosufficienza né di  elemosine. I  predicatori  cinici dell'epo­ca  di  Gesù andavano mendicando  il  proprio nutrimento.  E,  nella tradizione giudaica, erano note altre forme per ottenere una giu­sta  remunerazione per l'attività missionaria. I discepoli di Gesù, dal canto loro, condividono un annuncio e ricevono una comunità, che è rappresentata  dalla tavola e dalla casa. Entrano in contatto diret­to con la  realtà. Si pongono a fianco degli uomini. Hanno fiducia. Entrano nelle loro case e nelle loro vite. Camminano con loro. La tavola, per esempio, è una sorta di frontiera simbolica: ci pone ra­dicalmente dinanzi all'altro, davanti all'ignoto dell'altro che si apre. L'elemosina molte volte è  l'ultimo  grande rifugio della coscienza davanti alla paura e  al  disturbo che la  commensalità rappresenta. La tavola avvicina, espone, genera reciprocità. Per  questo il viaggio missionario di  quei primi discepoli rappresenta  la più  lunga traver­sata del  mondo greco-romano, o forse di qualsiasi mondo: il passag­gio  dalla soglia della porta all 'ignoto della tavola.

Le  regole della purità e  i  codici d 'onore, vitali nella struttura­zione delle società mediterranee  del   primo secolo, saranno scos­si  dallo sviluppo delle comunità cristiane, che assorbono, in una pratica fraterna,  genti e  costumi  dalle più   svariate provenienze. Il cristianesimo è nato e si è affermato contrastando  la paura  dello sconosciu­to. Tentando con lui una relazione, che solo può essere una relazione di amore, di tempo condiviso, di compagnia. Nel­la  parabola del  buon samaritano (che dobbiamo leggere pure in chiave voca­zionale, perché è la  chiamata  che Dio ci fa nel fratello piu povero e bisognoso),  non possiamo dimenticare che il samaritano trascorre tutta la  notte accanto all'uomo ferito e «Si prese cura di  lui)   (Le  l 0,34). Solo il giorno seguente tirò fuo­ ri due denari e  li  diede all'albergatore,  dicendo: «Abbi adesso tu cura di lui; ciò  che spenderai in più, te lo pagherò al mio  ritorno (Le  10,35). La  notte del  samaritano è  icona della vita intera di  un pastore che insegua lo  stile di  Gesù. La  vocazione alla missione, secondo il modo di Gesù e seguendo i suoi passi, altro non è se non una  vocazione di perdersi. In questa linea si pone la richiesta di Papa Francesco ripetuta ai pastori. «Questo io  vi  chiedo: siate pastori con l'" odore delle pecore", che si  senta quello. L'odore sollecita un contatto "fusionale", un contatto al  tempo stesso immediato e profondo. Un  odore, per esempio, è molto diverso da un'immagi­ne: nell'immagine, la relazione tra soggetto e oggetto è  dell'ordine della rappresentazione, mentre la  percezione olfattiva ci si incolla addosso, è puro impregnarsi. L'immagine parla di  un oggetto che è fuori da noi, ma quando l'olfatto segnala un profumo è perché lo abbiamo già  addosso. In alcuni testi profetici troviamo una va­riazione significativa. Nel  libro del  profeta Ezechiele, parlando  del popolo che dovrà tornare  dall'esilio, «Così  dice Dio: Io vi accet­terò come soave profumo)) (Ez  20,41). Qui, chiaramente, il soave profumo è quello del  popolo stesso. A  Dio  non basta l'odore delle nostre greggi o quello della rugiada sui nostri campi. Gradito a Dio è l'odore del  suo popolo, quel segnale di presenza, quella biografia scritta in modo tanto intenso senza neanche una parola.

Più  tardi, nel Nuovo Testamento, per l'esattezza nelle parole di Paolo, viene detta la  stessa cosa, ma con una veemenza e  con un ampliamento semantico che danno molto da pensare. Nella secon­ da Lettera ai  Corinzi l'apostolo scrive: «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il  profumo di  Cristo) (2Cor 2,15).  Così  come Ezechiele, Paolo fa dell'odore una metafora della vita. Noi  siamo odore, l'odore è la nostra vita, è  il  dono ricevuto da Dio. Ma   dice qualcosa  che il profeta non poteva indovinare, infatti se  siamo «dinanzi a Dio   il profumo di Cristo», allora è Cristo in noi a permettere l'ablazione, ad assicurare l'offerta, a  fare della nostra vita un dono. Ciò  che deve entrare nelle nostre narici è questa buona novella: siamo di Cristo.

È attraverso Cristo, con Cristo e in Cristo (la  formula tanto cara alla teologia di Paolo) che siamo quel profumo che sale fino a Dio  (2Cor 2,14).

 

  1. Il tempo della speranza

 

Quando  cerco qualche immagine per definire la  speranza, mi viene spesso in mente quella che in architettura è  chiamata "co­ pertura", o "punto di vista di Dio". Una casa, per esempio, ha quat­ tro pareti perimetrali che riusciamo a vedere bene e a tenere sotto controllo, ma la  quinta, cioè   il tetto, ci sfugge. La  quinta parete è quella parte di  realtà che è presente eppure non vediamo: solo Dio la  vede. Per   questo gli  architetti la  chiamano "il  punto di  vista di Dio". Che cosa potrebbe dunque  essere la  speranza? La  speranza sarebbe, in sintesi, la  possibilità presente di  contemplare il mondo con gli  occhi di Dio.  San Paolo ricorda che «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia))  (lCor 13, 12). Questa è la  promessa. Dobbiamo adottare  il "punto di vista di Dio".

In un romanzo di  Karen Blixen che amo molto, La  mia Africa, c'è la  descrizione di  un viaggio in aereo che evidenzia il  punto di vista di  Dio  (cioè il  sentimento  estasiato di  Dio   per l'uomo e  per il  mondo). Vedere con gli  occhi di  Dio è  apprendere a  guardare con amore. Nel  romanzo di  Karen Blixen si dice, in una pura esta­si:  «All'improvviso, appare il  lago. Visto dall'alto,  il  fondo bianco scintillante, attraverso l'acqua, crea una tinta azzurra incredibile, irreale, di una luce accecante... Al  nostro  avvicinarsi [migliaia di fenicotteri] si sparpagliarono, in grandi cerchi o a ventaglio, come raggi del  sole al tramonto)). Ora domando: che cos'è che noi siamo soliti raccontare? Quale punto di  vista adottiamo per osservare la realtà? Che cosa vediamo, quando guardiamo?

Michelangelo diceva che le  sue sculture non nascevano da un processo di invenzione, ma di liberazione. Osservava la pietra grez­za, totalmente informe, e  riusciva a vedere ciò  che sarebbe diven­tata. Per  questo, quando descrive il suo mestiere, lo scultore spiega: «lo   non faccio altro  che  liberare. Sono  persuaso  che  le  grandi opere di  creazione (come quel momento in cui   una donna o  un uomo si  trovano posti di fronte alla questione della propria vocazione) nascano da un processo simile  per il quale non so trovare espressione migliore della seguente:  esercizio di  speranza. Senza speranza notiamo solo la  pietra, il suo aspetto grezzo, un ostacolo faticoso e insormontabile. E' la speranza che apre uno spiraglio che fa vedere al di la delle  dure condizioni attuali le ricchezze di  possibilità che vi sono nascoste. Solo la  speranza è  capace di dialogare con il  futuro e di renderlo vicino. La  nostra esistenza,  dal principio alla fine, è il risultato di una professione di speranza. E  il tempo della speranza ci  fa  comprendere  quello che il geogra­fo-esploratore diceva: non è il viaggiatore che sceglie la strada; egli, piuttosto, si scopre prescelto e chiamato. È forse questo l'annuncio più urgente  e  necessario. Forse il  problema delle vocazioni nella Chiesa ci  chiede di riscoprire la vocazione dell'uomo e di potenzia- re tale annuncio.

L'uomo ha bisogno di scoprire la sua vocazione divina, ha biso­gno di vedersi amato e chiamato. Il nostro tempo assomiglia troppo al commento degli ultimi braccianti messi a contratto nella parabola dei lavoratori della vigna. Quando viene loro domandato perché se ne stiano inutilmente in quel luogo, senza dare un senso al  tempo della loro vita, essi  rispondono: «Perché nessuno ci ha presi a gior­nata  (Mt  20, 7). La  traduzione della Vulgata va ancora più a fondo:

« Quia nemo nos conduxit»  («Perché nessuno ci ha guidato») . C'è, nel cuore umano, carenza di Dio e di assoluto. Quando la speranza non ci  fa sentire il suo tocco, pare che nessuno ci  guidi. Consentitemi di  citare una poesia di una grande scrittrice portoghese, Sophia de Mello Breyner Andresen:

Ascolto ma non so

Se  ciò che sento è silenzio

O  Dio

Ascolto senza sapere se sto sentendo Il risuonare delle pianure del vuoto

O la coscienza attenta

Che nei confini dell'universo

Mi  decifra e fissa

So  appena che cammino come chi

È guardato amato e conosciuto

E per questo in ogni gesto metto

Solennità e rischio.

Nello sguardo  di  Gesù troviamo  quello amorevole di  Dio,   che va alla ricerca dell'uomo nel luoghi più impensati per trasforma­ re  il suo cuore. Quando Zaccheo sale sul sicomoro, spinto da  una curiosità che avrebbe potuto  fermarsi lì, Gesù si avvicina e  dice, fra  lo stupore generale: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua)) (Le 19,5).

Sarà passato per la mente di Zaccheo che quel predicatore sareb­be andato a cercarlo, di propria iniziativa, per farsi ospitare da lui? È la  sorpresa di  Dio. E  quando Zaccheo si  sente osservato in quel modo, la  sua vita si trasforma. In piedi, annuncia:  «Ecco, Signore, io  do  la metà dei  miei beni ai poveri; e se  ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto. (Lc 19,8)

So  appena che cammino come chi

È guardato amato e conosciuto

E per questo in ogni gesto metto

Solennità e rischio.

Il dialogo che avviene vicino al pozzo, nel Vangelo di  Giovanni, comincia quasi con una successione di malintesi. Il  primo: «Come mai tu, che  sei  Giudeo, chiedi da  bere a  me, che sono una donna samaritana?)) (Gv  4,9). E  poi:   «Signore, tu  non hai un mezzo per attingere e  il  pozzo è profondo; da dove hai dunque  quest'acqua viva?)) (Gv 4,11) . La svolta si verifica quando la  donna capisce, at­ traverso l'esempio della sua stessa vita, che Gesù non si  lascia in­ gannare dagli equivoci superficiali, ma guarda in profondità. Quella donna inizialmente riluttante va al villaggio a dire: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia  forse il Messia?))  (Gv 4,29). Cristo è  il  terapeuta  dello sguardo. Tende per noi il ponte che ci fa passare dal  vedere chiuso al contemplare fidu­ cioso e dal  semplice sguardo alla visione della speranza. Domandiamo di  nuovo: cosa venga a fare un geografo- esplora­tore in un'assemblea come la nostra? Che cosa potrà mai insegnare sul tema delle vocazioni nella Chiesa?

La nozione più  esatta di viag­giatore la  devo a  Jacques Lacarrière, che lo  descrive così: «<l vero viaggiatore è colui che, in ogni nuovo posto, ricomincia l'avventura della propria nascita>>.  Credo fermamente  che, nel viaggio, sia  in gioco proprio questo tentativo, più  cosciente o più  implicito, di  ri­ costruzione di se  stessi. Le frontiere esteriori ci rimandano in modo persistente a  una frontiera interiore. La geografia tende inevitabil­mente a farsi metaforica, e chiunque cammini sulla terra, a un certo punto si renderà conto, con dolore e con speranza, che sta cammi­ nando soprattutto dentro di sé. Si ricredano, infatti, quanti pensano che i viaggi siano soltanto esteriori. Quella che gli  occhi percorrono non è solo la cartografia del paesaggio.

Spostarsi, che lo si voglia o no, implica un cambio di  posizione; un'alterazione  della prospettiva abituale; una maturazione  del proprio sguardo; un riconoscimento del  fat­to che ci manca qualcosa; un adattamento a realtà tempi e  linguaggi, o la  scoperta un nuovo compito dell'incapacità di  farlo; un inevitabile confronto; un dialogo faticoso o affascinante che ci assegna, necessaria­mente, un nuovo compito. L'esperienza del  viaggio è  l'esperienza della frontiera e dell'aperto, di cui  in ogni tempo, abbiamo bisogno. Il camino emerge come dispositivo ermeneutico fondamentale.

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2017

2

di Josè Tolentino Mendonca